Le controversie relative al diniego o al silenzio in materia di autotutela tributaria rientrano nella giurisdizione tributaria, ma il contribuente può proporre impugnazione solo per contestare eventuali vizi propri del diniego e non anche per contestare la fondatezza della pretesa tributaria.

L’autotutela tributaria
Nel diritto tributario, l’autotutela è disciplinata dall’articolo 2-quater del decreto legge 564/1994 e dal decreto ministeriale 37/1997, con cui è stato adottato, in attuazione del citato articolo 2-quater, il “Regolamento recante norme relative all’esercizio del potere di autotutela da parte degli organi dell'Amministrazione Finanziaria”.

L’autotutela è il rimedio con cui l’Amministrazione finanziaria esercita lo ius poenitendi, vale a dire il potere di riesaminare la propria azione e, conseguentemente, annullare d’ufficio i propri atti che ritenga viziati sotto il profilo della legittimità.

Il potere di autotutela è esercitabile d’ufficio, anche in assenza di richiesta di parte.
L’eventuale richiesta dell’interessato, infatti, vale esclusivamente a sollecitare un’attività che può essere avviata sulla base di una determinazione autonoma dell’ufficio (con riferimento all’esercizio dell’autotutela nell’ambito del diritto amministrativo, cfr Consiglio di Stato, n. 4308 del 6 luglio 2010 e n. 5199 del 3 ottobre 2012).

La richiesta di autotutela, pertanto, non fa sorgere in capo all’ufficio l’obbligo giuridico di provvedere né, secondo alcuni, di fornire risposta al contribuente.

La giurisdizione tributaria e la proponibilità della domanda
Le controversie riguardanti il diniego di autotutela in materia tributaria rientrano nella giurisdizione tributaria, alla quale sono attribuiti, ai sensi dell’articolo 2 del decreto legislativo 546/1992, tutti i giudizi riguardanti “i tributi di ogni genere e specie” (cfr Cassazione, sezioni unite, n. 16776/2005, ove è stato precisato che sussiste la “giurisdizione tributaria anche in ordine alle impugnazioni proposte avverso il rifiuto espresso o tacito della Amministrazione a procedere ad autotutela”; cfr anche Cassazione, sezioni unite, nn. 2870/2009, 3698/2009, 7388/2007, 9669/2009 e Cassazione, nn. 15451/2010 e 22866/2011).

Occorre, tuttavia, precisare che i ricorsi introduttivi di tali controversie sono di norma inammissibili. In particolare, è inammissibile il ricorso avverso il diniego meramente confermativo della pretesa tributaria, proposto al fine di contestare la fondatezza della stessa pretesa.
In proposito, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, avverso un diniego di autotutela confermativo (della pretesa), non è esperibile un’autonoma tutela giurisdizionale, in quanto al contribuente non è consentito chiedere al giudice di rimettere in discussione la pretesa erariale (Cassazione, n. 2870/2009).

Il sindacato della Commissione tributaria, infatti, non può estendersi fino alla valutazione della fondatezza dell’originaria pretesa, in quanto è precluso al giudice procedere all’annullamento degli atti non impugnati ritualmente (cfr Cassazione, n. 1219/2011 e anche n. 12930/2013, con cui la Cassazione, con riferimento a una sentenza che si era pronunciata sull’impugnazione di un silenzio formatosi sulla richiesta di autotutela relativa a un atto di classamento di immobili, ha precisato che “L’impugnata sentenza… avendo provveduto a valutare la fondatezza della pretesa avanzata dalla contribuente, va, in conseguenza cassata…”).
Tale conclusione si giustifica in ragione sia della natura discrezionale propria dell’esercizio dell’autotutela sia del principio della certezza dei rapporti giuridici, che non consente di rimettere in discussione davanti al giudice la pretesa tributaria contenuta in atti definitivi (Cassazione, n. 11127/2012). La Cassazione ha, infatti, chiarito che “avverso l’atto con il quale l’Amministrazione manifesta il rifiuto di ritirare, in via di autotutela, un atto impositivo divenuto definitivo non è esperibile un’autonoma tutela giurisdizionale” (Cassazione, nn. 11457 e 18807 del 2010).

La discrezionalità dell’esercizio del potere di autotutela esclude, quindi, la configurabilità di un obbligo – giuridicamente tutelato – a provvedere, come anche, secondo alcuni, di un obbligo a esternare l’eventuale rigetto della richiesta.
A tale riguardo, la Corte di cassazione ha chiarito che in sede giudiziale è possibile effettuare esclusivamente un sindacato sul corretto esercizio del potere dell’Amministrazione, “nell’ambito della legittimità dell’operato… e non del merito, non essendo ammissibile la sostituzione del giudice tributario all’Amministrazione nell’adozione di un atto di autotutela” (Cassazione, sezioni unite, 26313/2010; cfr anche Cassazione nn. 10020/2012, 7687/2012 e 15451/2010).

In particolare, è stato precisato che “contro il diniego dell’amministrazione di procedere all’esercizio del potere di autotutela può essere proposta impugnazione soltanto per dedurre eventuali profili di illegittimità del rifiuto e non per contestare la fondatezza della pretesa tributaria (cfr. Cass. n. 11457/2010; n. 16097/2009). Giacché fuori dalla ridetta situazione, l’atto con il quale l’amministrazione finanziaria manifesta il rifiuto di ritirare in autotutela un atto impositivo divenuto definitivo - stante la relativa discrezionalità - non è suscettibile di essere impugnato innanzi alle commissioni tributarie (v. sez. un. n. 3698/2009)” (Cassazione, nn. 10020 e 19740 del 2012).

In sintesi, l’impugnabilità dell’atto di diniego dell’autotutela, secondo la Corte suprema, è ammissibile solo per far valere vizi propri del medesimo atto (ad esempio, perché sottoscritto da soggetto non legittimato o perché fondato su motivi contraddittori).


Fonte: Agenzia Entrate

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