In ipotesi di fatture che l’ufficio ritenga relative a operazioni oggettivamente, o anche solo soggettivamente, inesistenti, l’Amministrazione può provare che la transazione oggetto della fattura non è stata posta in essere, o non lo è stata tra i soggetti che figurano nella fattura, o che tale documento sottende comunque un comportamento fraudolento anche mediante presunzioni. La prova che la prestazione non è stata effettivamente resa dal fatturante, perché sfornito della sia pur minima dotazione personale e strumentale adeguata alla sua esecuzione, costituisce, di per sé, idoneo elemento sintomatico dell’assenza di “buona fede” del contribuente e l’immediatezza dei rapporti (cedente o prestatore fatturante cessionario o committente) induce ragionevolmente a escludere l’ignoranza incolpevole del cessionario o committente.

Il fatto
Con la sentenza 7650 del 2 aprile 2014, la Corte suprema ha accolto un ricorso dell’Amministrazione, cassando la sentenza di secondo grado e confermando la legittimità di un accertamento relativo a una complessa vicenda di operazioni soggettivamente inesistenti.
L’Agenzia delle Entrate aveva contestato a una società operante nel settore della distribuzione di carni l’indebita detrazione dell’Iva su operazioni soggettivamente inesistenti.
Tali provvedimenti traevano origine da un pvc della Guardia di finanza, con il quale era stato accertato che alcuni fornitori della società erano mere “cartiere”.

Il sistema è noto.
Nel caso specifico, la frode si realizzava tramite la costituzione, nel territorio nazionale, di una società, oppure, nell’acquisizione di società ormai inattive:
che non disponevano di alcuna struttura societaria, né di beni patrimoniali né di personale dipendente
effettuavano rilevanti acquisti intracomunitari di carne da vari Paesi Ue
ricevevano conformemente al sistema, le relative fatture senza addebito d’Iva e assolvevano a tutti gli obblighi formali stabiliti dalla normativa comunitaria, ma non all’obbligo sostanziale del versamento dell’imposta.
Le merci acquistate venivano poi cedute, con regolari fatture soggette a Iva, a clienti nazionali, così legittimati alla detrazione dell’imposta sul valore aggiunto.

Lo svolgimento del giudizio di merito
A fronte della precisa e documentata ricostruzione, che emergeva dalle segnalazioni della Guardia di finanza, il contribuente, già in primo grado, si limitava a delle mere argomentazioni, sostenendo che la società aveva intrattenuto normali rapporti commerciali, senza considerare che, in realtà, come documentalmente dimostrato, i suoi fornitori ufficiali non erano materialmente in grado di effettuare la fornitura.
Infatti, prendendo a esempio uno di questi, oltre a non disporre né di un immobile dove stoccare gli acquisti, né di veicoli idonei alla consegna, in alcuni casi aveva addirittura provveduto alla consegna del prodotto in data antecedente alla sua uscita dal deposito.
Anche gli altri fornitori, del resto, non disponevano di alcuna struttura, né societaria né patrimoniale.
Il ricorrente, a suo tempo, aveva poi dichiarato ai verbalizzanti che il trasporto della merce ceduta era avvenuto con mezzi della società acquirente, la quale era però risultata priva della disponibilità di mezzi.
Prive dei particolari mezzi di trasporto della merce in questione (carne), che devono essere dotati di idonea cella frigorifera e quant’altro, erano risultate anche le società fornitrici e ciò non poteva sfuggire a un operatore di men che media diligenza del settore.
E questi erano solo alcuni dei tanti elementi prodotti in giudizio.

L’Amministrazione aveva quindi pienamente assolto il proprio onere probatorio, fornendo una circostanziata e documentata ricostruzione dalla quale emergeva, in maniera indiscutibile, che l’Iva recuperata atteneva a operazioni soggettivamente inesistenti.

Il contribuente, per parte sua, non presentava invece alcuna concreta prova contraria e si limitava a basare la propria difesa, in punto di merito, sull’effettività delle fatture e dei pagamenti sussistenti a fronte delle operazioni contestate, elementi, questi, certo non idonei a legittimare la detraibilità, ma che, anzi, dovevano essere necessariamente posti in essere per poter realizzare il meccanismo fraudolento.
Per tali motivi, la Ctp di Firenze era stata molto chiara e precisa nel respingere il ricorso del contribuente, condannandolo anche alle spese di giudizio.

Il contribuente tuttavia presentava appello, poi accolto dalla Commissione tributaria regionale della Toscana.
I giudici di secondo grado (senza però specificare i riferimenti giurisprudenziali) avevano in particolare sostenuto che le conclusioni della Cassazione, a cui l’ufficio faceva richiamo, sarebbero state superate da quanto affermato dalla Corte di giustizia Ue, la quale avrebbe asserito che il diritto di detrarre l’Iva, previsto dagli articoli 17 e seguenti della sesta direttiva, pagata a monte da parte di un soggetto passivo non può essere compromesso dalla circostanza che nella catena di cessioni in cui si iscrivono le dette operazioni, un’altra operazione, precedente o successiva a quella da esso realizzata, sia inficiata da frode all’Iva, senza che tale soggetto passivo lo sappia o possa saperlo.

Concludeva dunque la Ctr affermando che è irrilevante, ai fini del diritto del soggetto passivo di detrarre l’imposta sul valore aggiunto pagata a monte, stabilire se l’Iva dovuta sulle operazioni di vendita precedenti sia stata o meno versata all’Erario e che, per non riconoscere il diritto alla detraibilità dell’imposta pagata, l’ufficio doveva dimostrare, attraverso elementi obiettivi, che il contribuente era o poteva essere partecipe alla frode, spettando all’organo accertatore dimostrare e non presumere che l’Iva pagata dal cessionario era stata effettivamente restituita a quest’ultimo, brevi manu, dai fornitori, laddove la mancata prova di questa restituzione era dunque, per i giudici di secondo grado, elemento rilevante per determinare o meno la partecipazione della ricorrente al disegno criminoso.

Addirittura, poi, la Commissione tributaria regionale sosteneva che il fatto che le società fornitrici e/o fatturatici della carne non avessero una struttura societaria e/o fossero prive di beni patrimoniali e di personale dipendente non era elemento probatorio tale da dimostrare la presenza di un’interposizione fittizia fatta da soggetti inesistenti.
Secondo la Ctr, dunque, era necessaria una prova, certa e non presuntiva, dell’esistenza di operazioni soggettivamente inesistenti e quest’onere spettava all’ufficio.

Il ricorso in Cassazione
L’Agenzia delle Entrate ricorreva in Cassazione, ritenendo le motivazioni addotte infondate sia in fatto che in diritto e, comunque, anche in contraddizione tra di loro.
La sola difesa del contribuente, come accolta dalla Ctr, consisteva infatti nel sostenere che egli era comunque estraneo alla frode (evidentemente) perpetrata ai danni dell’Erario.
In sostanza, affermava, non era dimostrata la comunanza del disegno criminoso fra le società fittizie e la ricorrente, mancava la prova della sua complicità.
Secondo il contribuente e la Commissione tributaria regionale, in poche parole, non si poteva negare che lo Stato fosse stato truffato da soggetti che avevano deliberatamente evaso l’Iva sfruttando i meccanismi dell’importazione intracomunitaria, ma bisognava tuttavia pretendere una chiara distinzione di responsabilità e contrastare il tentativo di ribaltare su operatori economici sani e corretti le conseguenze di comportamenti illeciti altrui.

Se tale linea difensiva fosse sufficiente, però, le frodi comunitarie dilagherebbero senza possibilità di contrasto. Il meccanismo delle stesse è infatti fondato proprio sul meccanismo della formale deresponsabilizzazione dei soggetti “normali”. Ma, per tale motivo, la normativa di riferimento appronta efficaci rimedi.
Il sistema dell’Iva è vittima, infatti, sia a livello interno che nelle transazioni intracomunitarie, di numerosi comportamenti fraudolenti intesi a sfruttare indebitamente le ipotesi di esenzione previste dal meccanismo stesso per incamerare l’imposta attraverso crediti e detrazioni; tale condotta consente, nelle “frodi carosello”, di cedere i beni sul mercato interno dei vari Paesi Ue a un prezzo “sottocosto”, con grave distorsione della concorrenza a svantaggio degli operatori onesti.
L’opera di contrasto agli illeciti in esame, secondo le linee-guida stabilite proprio in sede comunitaria, ha richiesto, quindi, sia una successione di modifiche normative sostanziali sia l’approntamento di adeguate strategie di indagine da parte dell'Amministrazione finanziaria, sia, infine, l’introduzione di specifiche fattispecie di reato in ambito penal-tributario.

A parere della Ctr, tuttavia, come detto, l’ufficio non aveva offerto la prova “certa” che la società avesse consapevolmente utilizzato fatture di acquisto soggettivamente inesistenti e nemmeno dimostrato la sua partecipazione diretta o indiretta a un disegno fraudolento.
In conformità a quanto sancito dall’articolo 19 del Dpr 633/72, l’onere della prova, però, incombeva al soggetto passivo.
D’altra parte, non risultavano in alcun modo elementi addotti dalla società in grado di controbattere efficacemente le presunzioni dell’Agenzia delle Entrate, le quali, a differenza di quanto sostenuto dalla Ctr, avevano indiscutibilmente i requisiti di gravità, precisione e concordanza posti dall’articolo 2729 del codice civile (tant’è che poi la Cassazione ha deciso subito nel merito, senza rinvio e condannando i contribuenti anche a 18mila euro di spese).
Gravità intesa come rilevante contiguità logica col fatto ignoto; precisione in quanto il fatto noto da cui la presunzione prendeva le mosse era certo nella sua oggettività; concordanza perché tutti gli indizi erano dello stesso segno e non si contraddicevano tra di loro.

L’onere della prova a carico dell'Amministrazione finanziaria doveva ritenersi infatti soddisfatto anche in via presuntiva, dato che “tra il fatto noto e il fatto ignoto non occorre che sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità” (Cassazione, sentenze 9961/1996, 2700/1997 e 5082/1997).

E tali conclusioni assumono ancora maggiore forza proprio sulla base del disposto delle sentenze della Corte comunitaria, inspiegabilmente chiamate invece a supporto della tesi contraria da parte della Ctr nella sentenza poi cassata.
Se il cessionario acquisisce, infatti, un illecito profitto (quale già deve esser riconosciuta la detrazione collegata a una frode), la detrazione stessa deve essere negata; nella specie, si utilizza infatti l’articolo 17 della sesta direttiva Cee, disciplinante il diritto di detrazione, per ottenere un beneficio contrario alla finalità di tale disposizione (cfr anche Corte di giustizia Ue, 3 marzo 2005, causa C-32/03).

Si tratta, del resto, di un’impostazione coerente alle indicazioni contenute nella relazione della Commissione Ue 260/2005, in cui si afferma che un modo efficace per combattere le “frodi carosello” è quello di negare il recupero dell’Iva alle altre parti coinvolte nella frode.
Nel caso di specie, l’inesistenza soggettiva comportava, in sostanza, l’indetraibilità dell’imposta e, una volta accertato che si trattava di operazioni soggettivamente inesistenti, sorgeva evidentemente l’obbligo di corrispondere la relativa imposta ai sensi dell’articolo 21, penultimo comma, del Dpr 633/1972, come del resto confermato dalla consolidata giurisprudenza della Corte di cassazione.
Non si poteva dunque proprio dire che fossero “normali rapporti commerciali”.
E l’inesistenza soggettiva, ai fini Iva, comporta, sempre, l’indetraibilità dell’imposta.
In tema di imposta sul valore aggiunto, la fatturazione effettuata in favore di soggetto diverso da quello effettivo non è riconducibile infatti all’ipotesi di “indicazioni incomplete o inesatte” (articolo 41, terzo comma, Dpr 633/1972) né a quella di omissione dell’indicazione dei soggetti tra cui la operazione è effettuata (articolo 21, comma 2, n. 1, Dpr 633/1972), ma va ritenuta “soggettivamente inesistente”, venendo evasa l’imposta relativa al rapporto realmente posto in essere.
E nel caso in cui l’Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture perché relativa a operazioni soggettivamente inesistenti, la prova della legittimità e della correttezza delle detrazioni, come detto, deve essere fornita dal contribuente.

Il decisum della Corte
Per tali motivi, pertanto, la Corte suprema, con la sentenza in commento, ha confermato la legittimità della pretesa dell’Amministrazione, affermando che “… in ipotesi di fatture che l'Ufficio ritenga relative ad operazioni oggettivamente, o anche solo soggettivamente, inesistenti, o che ancorché effettivamente poste in essere si iscrivono in combinazioni negoziali fraudolente ai danni del fisco, l'Amministrazione stessa ha l'onere di provare che l'operazione commerciale oggetto della fattura non è stata posta in essere, o non lo è stata tra i soggetti che figurano nella fattura, o che tale documento sottende un'operazione fraudolenta cui il cessionario sia partecipe. E non può revocarsi in dubbio che tale prova possa essere fornita anche mediante presunzioni, come espressamente prevede, per l'IVA, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, (analoga previsione è contenuta, per le imposte dirette, nel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 39, comma 1, lett. d)) (cfr. Cass. 21953/07, che fa riferimento alla possibilità che l'amministrazione produca elementi anche indiziari, a sostegno della pretesa fiscale azionata; Cass. 9108/12; 15741/12, in motivazione; 23560/12; 27718/13; nello stesso senso C. Giust. 6.7.06, C 439/04, C. Giust., 21.2.06, C 255/02; C. Giust. 21.6.12, C 80/11; C. Giust. 6.12.12, C 285/11; C. Giust. 31.1.13, C 642/11)”.

Secondo i giudici di legittimità, quindi, è di tutta evidenza che, nel caso di operazioni oggettivamente inesistenti, è escluso in radice che possa configurarsi la buona fede del cessionario o committente, il quale sa bene se una determinata fornitura di beni o prestazione di servizi è avvenuta oppure no.

Ma, anche nel caso in cui l’Amministrazione contesti al contribuente di avere adoperato, ai fini della detrazione dell’Iva, fatture “solo” soggettivamente inesistenti, ovverosia che la fattura sia stata emessa da un soggetto diverso dall’effettivo fornitore del bene o prestatore del servizio, “la prova, fornita dall'Amministrazione, che la prestazione non è stata effettivamente resa dal fatturante, perché sfornito della, sia pur minima, dotazione personale e strumentale adeguata alla sua esecuzione, costituisce, di per sé, per la sua pregnanza dimostrativa, idoneo elemento sintomatico dell'assenza di "buona fede" del contribuente. L'immediatezza dei rapporti (cedente o prestatore fatturante cessionario o committente) induce, invero, ragionevolmente ad escludere in via presuntiva a fronte di una conclamata inidoneità allo svolgimento dell'attività economica l'ignoranza incolpevole del cessionario o committente circa l'avvenuto versamento dell'IVA a soggetto non legittimato alla rivalsa, né assoggettato all'obbligo del pagamento dell'imposta. In tal caso, sarà di conseguenza il contribuente a dover provare, in applicazione di principi ordinari sull'onere della prova vigenti nel nostro ordinamento (art. 2697 c.c), di non essere a conoscenza del fatto che il fornitore effettivo del bene o della prestazione era, non il fatturante, ma altri, dovendosi altrimenti negare il diritto alla detrazione dell'IVA versata (Cass. 6229/13)”.

In conclusione, qualora l’Amministrazione contesti al contribuente, come nel caso di specie, l’indebita detrazione di fatture, in quanto relative a operazioni inesistenti e fornisca attendibili riscontri indiziari sull’inesistenza di tali transazioni, ricade sul contribuente medesimo l’onere di dimostrare la fonte legittima della detrazione, altrimenti non operabile.

Il cessionario, in particolare, sottolinea ancora la Corte, “ha l'onere di dimostrare almeno, anche in via alternativa, di non essersi trovato nella situazione giuridica oggettiva di conoscibilità delle operazioni pregresse intercorse tra il cedente ed il fatturante in ordine al bene ceduto, oppure, nonostante il possesso della capacità cognitiva adeguata all'attività professionale svolta in occasione dell'operazione contestata, di non essere stato in grado di abbandonare lo stato di ignoranza sul carattere fraudolento delle operazioni degli altri soggetti collegati all'operazione (Cass. 8132/11, 23074/12)”.
E, a tal fine, “non è tuttavia sufficiente dedurre, da parte del contribuente, che la merce sia stata consegnata e la fattura, IVA compresa, sia stata effettivamente pagata, trattandosi di circostanze pienamente compatibili con il modello di frode fiscale, posto in essere mediante un'operazione soggettivamente inesistente (Cass. 17377/09; 230744/12). E tanto meno può considerarsi sufficiente la dimostrazione della regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto si tratta com'è del tutto evidente di dati e circostanze facilmente falsificabili dal contribuente (cfr. Cass. 1950/07, 12802/11)”.

D’altra parte, la provenienza della merce stessa da soggetto diverso da quello figurante sulle fatture non è certo una circostanza indifferente ai fini dell’Iva.
Per un verso, infatti, la qualità del venditore può incidere sulla misura dell’aliquota e, per conseguenza, sull’entità dell’imposta legittimamente detraibile dall’acquirente; per altro verso, l’indetraibilità dell’Iva, nelle operazioni soggettivamente inesistenti, è ancorabile proprio all’incoerenza dei termini soggettivi dell’operazione rispetto a quelli della fatturazione (Dpr 633/1972, articoli 19 comma 1, 21 comma 7 e 26 comma 3), cioè alla dirompente alterazione della corretta sequenza tra operazioni a monte e operazioni a valle, costituente il fulcro del disposto dell’articolo 17 della sesta direttiva Iva, secondo cui il giudice nazionale deve negare il diritto alla detrazione, se risulta dimostrato che il diritto dell’Unione europea sia stato invocato in modo fraudolento (Cassazione, sentenze 6229/2013 e 24426/2013; Corte di giustizia europea, sentenze: 6.7.06, C 439/04; 21.2.06, C 255/02; 21.6.12, C 80/11; 6.12.12, C 285/11; 31.1.13, C 642/11).

Come dunque confermato dai giudici di legittimità, gli elementi forniti dall’Amministrazione nel caso di specie, consistenti nella totale assenza, presso le società “cartiere”, di strutture e mezzi idonei a consentire loro di effettuare le forniture oggetto delle fatture in contestazione, erano dunque “elementi di forte spessore indiziario e presuntivo”, che inducevano ragionevolmente a escludere l’ignoranza incolpevole della cessionaria circa l’avvenuto versamento dell’Iva a soggetto non legittimato alla rivalsa, né tenuto all’obbligo del pagamento dell’imposta.


Fonte: Agenzia Entrate

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