Nel caso di occultamento o distruzione delle scritture contabili, il giudice può legittimamente contestare il reato di evasione per mezzo di infedele dichiarazione Iva avvalendosi direttamente delle risultanze del processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di Finanza nonché ricorrere all’accertamento induttivo ex articolo 39 Dpr 600/1973 per la determinazione del maggior imponibile.
Questo il principio enunciato dalla Corte di cassazione con la sentenza 33504 del 30 agosto.

Il fatto
A seguito di verifica fiscale condotta nei confronti di una società, la Guardia di Finanza constatava l’indicazione di elementi passivi nella dichiarazione Iva, di ammontare tale da eccedere le soglie di punibilità e far scattare in capo al rappresentante legale pro tempore il reato di infedele dichiarazione di cui all’articolo 4 del Dlgs 74/2000.
La Corte d’appello, confermando la sentenza del tribunale di primo grado, condannava il contribuente per il reato ascrittogli.
Contro la sentenza in oggetto l’imputato proponeva ricorso per Cassazione, adducendo come motivo principale la carenza di motivazione della pronuncia di condanna in ordine alla prova della fittizietà degli elementi passivi esposti in dichiarazione.
A riguardo, l’imputato sosteneva che nel corso del procedimento non era emersa alcuna prova che dimostrasse che egli avesse indicato in dichiarazione elementi passivi fittizi, in quanto la mancata esibizione delle scritture contabili, occultate dalla parte, non avrebbe permesso agli agenti della Guardia di Finanza di poter verificare la legittimità del comportamento, con la conseguenza che sarebbero venuti meno gli estremi per ritenere penalmente rilevante la condotta.
Con un ulteriore motivo di ricorso l’imputato lamentava che i giudici d’appello non avevano considerato la precedente condanna, emessa a suo carico da un diverso tribunale, in ordine al reato di occultamento e distruzione di documenti contabili ai sensi dell’articolo 10 del Dlgs 74/2000.
Secondo la tesi di parte i reati di occultamento e di evasione per mezzo dell’infedele dichiarazione erano sostanzialmente coincidenti e, pertanto, quest’ultimo non era più perseguibile per il principio del ne bis in idem.
La Corte di cassazione, ritenendo infondato il ricorso in merito ai summenzionati motivi, ha proceduto al rigetto dello stesso.

La decisione
Con la sentenza in commento la sezione penale della Corte di cassazione torna a pronunciarsi in tema di reati da evasione fiscale, focalizzando il giudicato sull’utilizzabilità delle prove e della procedura per la determinazione dell’imponibile non dichiarato e della correlata imposta evasa.
L’imputato lamentava che i giudici della Corte d’appello non avessero adeguatamente considerato il fatto che le scritture contabili non erano presenti in sede di verifica perché andate smarrite.
Secondo la tesi difensiva tale circostanza non avrebbe consentito all’organo verificatore di provare che la società aveva inserito elementi fittizi nella propria dichiarazione Iva.
Ciò avrebbe comportato, pertanto, la mancanza di prova circa l’illegittimità del comportamento tenuto dal contribuente e la conseguente mancanza degli estremi per poter ritenere penalmente rilevante la sua condotta.
Il giudizio della Corte di legittimità è stato tranchant sul punto, giudicandolo manifestamente infondato.
A supporto della tesi il Collegio ha richiamato l’interpretazione secondo cui “nell’accertamento dei reati tributari e, in particolare, ai fini della prova del reato di dichiarazione infedele, il giudice può fare ricorso legittimamente ai verbali di constatazione redatti dalla Guardia di Finanza per la determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa e può fare altresì ricorso all’accertamento induttivo dell’imponibile, secondo il disposto dell’art. 39 del D.P.R. 600/1973, quando non sia stata tenuta o sia stata tenuta irregolarmente la contabilità imposta dalla legge.”
Tali principi rientrano in un filone giurisprudenziale già confermato con le sentenze 28053/2011 e 5786/2007, secondo cui l’irregolare tenuta della contabilità legittima l’utilizzo in sede penale di indizi di reato appartenenti al diritto tributario, se il delitto ne è di diretta derivazione.
In altre parole, a determinate condizioni il processo verbale di constatazione assume piena valenza probatoria sia in ambito fiscale che in ambito penale.
Seguendo lo stesso principio, a parere dei giudici di legittimità il metodo induttivo, di derivazione squisitamente tributaria, è correttamente utilizzabile anche in ambito penale per la determinazione dell’imponibile non dichiarato e per la quantificazione della correlata imposta evasa, quando non è possibile trovare riscontro nelle scritture contabili e amministrative, “scritture che secondo la ricostruzione dell’imputato, erano andate smarrite senza, tuttavia, alcuna verosimile indicazione delle modalità di tale smarrimento e in assenza di denuncia sul punto.”

Se si opinasse diversamente, peraltro, si giungerebbe alla non condivisibile conclusione che una condotta di per sé delittuosa, quale è l’occultamento delle scritture contabili, produrrebbe in capo al responsabile un ingiustificato vantaggio, dato che sarebbe impossibile verificarne la condotta delittuosa.
In merito al secondo motivo di ricorso, riguardante la pretesa identità tra il delitto di infedele dichiarazione e quello di occultamento delle scritture contabili, per il quale era già intervenuta sentenza di condanna, la Corte di cassazione ha deciso per la sua infondatezza, rilevando che tra le due condotte vi è un’evidente diversità.
Infatti, “l’occultamento e distruzione delle scritture contabili costituisce un antefatto che non necessariamente deve ricorrere per la commissione del reato di cui all’art. 4 del D.Lgs. 74/2000, reato che può essere realizzato anche senza occultamento o distruzione di scritture contabili.”


Fonte: Agenzia Entrate

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