La Corte suprema, con la sentenza 14908 del 5 settembre 2012, è tornata a pronunciarsi sulla valenza probatoria della scrittura privata volta a predeterminare le quote di partecipazione agli utili all’interno dell’impresa familiare.
I giudici di legittimità, nel ribadire un principio già espresso in passato, (Cassazione, sentenze 9683/2003 e 21966/2007), hanno osservato che “ove la ripartizione degli utili sia stata predeterminata tra le parti con atto scritto, come richiesto dalla normativa fiscale in materia (art. 3 d.l. 19 dicembre 1984 n. 853, convertito, con modificazioni, nella l. 17 febbraio 1985 n. 17), il giudice non può disattendere il valore probatorio di tale scrittura, accertando l'insussistenza dell'impresa familiare, senza motivare adeguatamente sul carattere simulato dell'atto stesso”.

Inquadramento giuridico della fattispecie
Per impresa familiare, ai sensi dell’articolo, 230-bis del codice civile deve intendersi quell’impresa a cui collaborano in modo continuativo il coniuge dell’imprenditore, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo.
Il predetto istituto trova regolamentazione, sul piano fiscale, all’articolo 5 del Dpr 917/1986, il quale precisa che i redditi delle imprese familiari, limitatamente al 49% dell’ammontare risultante dalla dichiarazione dei redditi dell’imprenditore, sono imputati a ciascun familiare che abbia prestato in modo continuativo e prevalente attività di lavoro nell’azienda, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili, purché l’indicazione dei familiari e del loro rapporto di parentela o affinità con il titolare risulti da atto pubblico o scrittura privata autenticata, anteriore al periodo d’imposta, e sottoscritta dall’imprenditore e dai familiari stessi.

Le differenze riscontrate con la disciplina civilistica possono essere così sintetizzate: il lavoro del collaboratore all’interno dell’azienda di famiglia deve essere non solo continuativo, come richiede il codice civile, ma anche prevalente.
Questo tipo di attività, infatti, deve prevalere su qualsiasi altra occupazione, non potendosi qualificare come collaboratori coloro che svolgono in modo continuativo attività di lavoro dipendente, autonomo o d‘impresa.
Il lavoro dei collaboratori, inoltre, deve essere prestato nell’impresa familiare, in quanto non ha alcuna valenza ai fini fiscali il lavoro prestato nella famiglia.
Anche per il legislatore fiscale la partecipazione al reddito deve essere proporzionale alla qualità e alla quantità del lavoro effettuato, fermo restando che le quote spettanti ai parenti, come già anticipato, non possono in ogni caso superare, ai fini fiscali, il 49% degli utili conseguiti.
L’unico responsabile delle perdite, come prevede anche la normativa civilistica, rimane il titolare dell’azienda.
Altra condizione essenziale per imputare il reddito d’impresa ai familiari, a titolo di reddito da partecipazione, è che prima dell’inizio del periodo d’imposta sia stipulato un atto pubblico o una scrittura privata autenticata da cui risulti il nome di tutti i collaboratori, firmato da questi ultimi e dal titolare.
Dottrina e giurisprudenza ritengono che l’impresa familiare, almeno in ambito civilistico, si costituisca automaticamente in presenza di una mera situazione di fatto in cui un componente della famiglia lavori in modo continuativo al servizio dell’impresa (Cassazione, sentenza 697/7993).

L’atto pubblico o la scrittura privata autenticata, invece, sarebbero obbligatori per la sola applicazione del regime fiscale, in questi casi si parlerebbe di dichiarazioni di scienza o atti di mera enunciazione.

Iter giuridico
Nel caso di specie la Corte d’appello di Catania confermava la sentenza di primo grado che, nel riconoscere come fondate le doglianze attoree, accertava la quota di partecipazione del ricorrente in proporzione alla qualità e quantità del lavoro prestato e dunque condannava il convenuto al pagamento delle somme dovute, a titolo di utili dell’impresa familiare.
Il giudice di primo grado osservava che l’esistenza dell’impresa familiare doveva “ritenersi provata sia in base al contenuto delle scritture private prodotte sia in base alle deposizioni testimoniali, dalle quali era risultato l’effettiva partecipazione all’attività d’impresa”.
La parte soccombente formulava ricorso in Cassazione avverso la sentenza di secondo grado lamentando la violazione dell’articolo 230-bis del codice civile, in quanto le scritture private valorizzate dai giudici di merito ai fini della costituzione dell’impresa familiare “erano state formate ai soli fini fiscali e anche la prova testimoniale non aveva fornito elementi dai quali potesse desumersi lo svolgimento di un’attività lavorativa continua…..quale associata nell’impresa familiare.”.

Iussum iudicandi
La Corte suprema rigettava il ricorso e, nel ribadire la propria posizione (Cassazione, sentenze 9683/2003 e 21966/2007) in merito alla valenza probatoria dei documenti enucleati all’articolo 5 del Dpr 597/1973, sub specie atto pubblico e scrittura privata autenticata, osservava che “in tema di impresa familiare (art. 230 bis c.c.), la predeterminazione, ai sensi dell'art. 9 della legge n. 576 del 1975 (integrativo dell'art. 5 del D.P.R. n. 597 del 1973) e nella forma documentale prescritta, delle quote di partecipazione agli utili dell'impresa familiare, sia essa oggetto di una mera dichiarazione di verità (come è sufficiente ai fini fiscali) o di un negozio giuridico (non incompatibile con la configurabilità dell'impresa familiare), può risultare idonea, in difetto di prova contraria da parte del familiare imprenditore, ad assolvere mediante presunzioni l'onere – a carico del partecipante che agisca per ottenere la propria quota di utili – della dimostrazione sia della fattispecie costitutiva dell'impresa stessa che dell'entità della propria quota di partecipazione (in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato) agli utili dell'impresa”.

Conclusioni
La scrittura privata, volta a predeterminate le quote di partecipazione agli utili, produce solo l’effetto – processuale – di invertire l’onere della prova a carico del titolare dell’impresa che sia stato convenuto in giudizio da uno dei collaboratori che pretenda il riconoscimento, in ambito giudiziale, della propria partecipazione agli utili.
Il giudice non può disconoscere la valenza probatoria della scrittura privata in assenza di dati oggettivi che comprovino la natura simulata dell’accordo e dunque la mancanza di collaborazione continuativa e prevalente da parte dei singoli familiari.

L’articolo 2702 del codice civile attribuisce alla scrittura privata l’efficacia di piena prova fino a querela di falso della provenienza delle dichiarazioni da chi l’ha sottoscritta, se colui contro il quale è prodotta ne riconosce la sottoscrizione, ovvero se questa è legalmente considerata come riconosciuta.
L’efficacia privilegiata della scrittura privata è limitata alla provenienza della dichiarazione dal sottoscrittore e non si estende al contenuto della dichiarazione, con la conseguenza che soltanto l’elemento estrinseco del collegamento tra dichiarazione e sottoscrizione (funzione dichiarativa) fa prova fino a querela di falso, mentre la veridicità della dichiarazione può essere contrastata con ogni mezzo di prova.
In definitiva la presenza dell’impresa familiare e dunque la partecipazione agli utili, con le dovute conseguenze sul piano fiscale, può desumersi dall’esistenza di una scrittura privata – avente natura costitutiva per alcuni o meramente dichiarativa per altri – destinata a soccombere solo in presenza di fatti contrari che ne escludano in toto la rilevanza sul piano probatorio.


Fonte: Agenzia Entrate

0 commenti:

 
Top