L’avvocato della parte vittoriosa può chiedere alla soccombente soltanto l’importo dovuto a titolo di onorario e spese processuali e non anche quello dell’Iva che gli sarebbe dovuta, a titolo di rivalsa, dal proprio cliente, abilitato a portarla in detrazione. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione con la sentenza 13659/2012.

Il fatto
Una società farmaceutica otteneva, dal giudice di pace, un decreto ingiuntivo a carico di un’Azienda unità sanitaria locale (Ausl) la quale proponeva opposizione contestando l’erronea applicazione dell’Iva a favore del procuratore distrattario, stante la possibile detraibilità della stessa da parte del ricorrente vittorioso.
L’Azienda ha proposto ricorso in Cassazione avverso la sentenza emessa dal giudice di pace secondo equità, nel regime previsto dall’ex art. 339 c.p.c., anteriormente alla modifica di cui alla legge 40/2006, e ha dedotto la violazione dei principi regolatori relativi alla normativa in materia di Iva. In particolare, l’Azienda ha sostenuto che la disciplina Iva è ispirata al principio della neutralità dell’imposta: poiché il creditore (imprenditore) poteva detrarre l’Iva indicata nella fattura del professionista (avvocato) che lo aveva assistito, la debitrice (Ausl) non sarebbe stata tenuta alla corresponsione dell’imposta. Diversamente, si sarebbe verificato un arricchimento ingiustificato del difensore ingiungente che, da un lato avrebbe incassato l’Iva refusagli, dall’altro avrebbe portato in detrazione l’Iva versata. In definitiva, l’Azienda ha sostenuto che il professionista distrattario delle spese poteva richiedere al soccombente solo l’importo dovuto a titolo di onorario e spese processuali e non anche l’importo dell’Iva che gli sarebbe stata dovuta - a titolo di rivalsa - dal proprio cliente, abilitato a detrarla.
Al riguardo, la Corte, ha accolto il ricorso e revocato il decreto ingiuntivo, limitatamente all'applicazione dell'Iva a favore del difensore distrattario della parte vittoriosa. Inoltre, si è pronunciata espressamente sulla questione, affermando il seguente principio di diritto: “… in materia fiscale costituisce principio informatore l’addebitabilità di una spesa al debitore solo se sussista il costo corrispondente e non anche qualora quest’ultimo venga normalmente recuperato, poichè non può essere considerata legittima una locupletazione da parte di un soggetto altrimenti legittimato a conseguire due volte la medesima somma di denaro…”.

Osservazioni
La sentenza in esame evidenzia due aspetti peculiari del regime delle spese di lite in caso di soccombenza, che consente, non solo di individuare chi sia il soggetto tenuto al pagamento nei confronti del professionista distrattario delle spese dall’altra, ma anche di chiarire se, tra le spese, debba essere compresa anche la somma corrispondente all’Iva dovuta.In generale, il giudice condanna la parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell’altra parte e ne liquida l’ammontare insieme con gli onorari di difesa (cosiddetto principio della soccombenza – articoli 15, Dlgs 546/1992 e 91, c.p.c.).
In caso di condanna alle spese, la parte soccombente può corrispondere le stesse o alla parte vittoriosa (articolo 91, 1° comma, c.p.c.), oppure al difensore della parte vittoriosa (articolo 93, 1° comma, c.p.c.).

La regola generale è che il professionista abilitato chiede il compenso direttamente al proprio assistito e non alla controparte. Esiste tuttavia un’eccezione a tale principio: ex articolo 93 c.p.c., secondo il quale, ove il difensore dichiari in giudizio di non aver riscosso onorari e di aver anticipato le spese di giudizio, può ottenere che il giudice, nella stessa sentenza in cui condanna alle spese, distragga in suo favore tali somme. Il giudice, cioè, condanna la parte soccombente a pagare le spese legali direttamente al difensore della parte vittoriosa.
A seguito di tale distrazione, il diritto che, in base alla pronuncia giudiziaria, viene a costituirsi a favore del difensore comporta che egli possa pretendere, nei confronti diretti del soccombente, anche quanto dovutogli a titolo di Iva.

Tuttavia, il soggetto passivo della rivalsa (exarticolo 18 del D.P.R. 633/72), di solito resta il cliente, nei confronti del quale va emessa, da parte del professionista, la relativa fattura. In tale documento contabile dovrà essere evidenziato che il pagamento, sia dell’onorario sia del tributo che vi accede, è avvenuto da parte del soccombente, vincolato alla prestazione a seguito della condanna contenuta nella sentenza.
Il soccombente, infatti, esegue il pagamento dell’Iva come costo del processo, nel senso che deve tenere indenne la controparte da ogni onere patrimoniale. Si sa che chi perde paga ma, per l’Iva, non è sempre così. In generale, la parte soccombente, condannata al pagamento delle spese processuali, è tenuta al rimborso dell’Iva corrisposta dalla controparte vittoriosa al proprio difensore, trattandosi di una spesa da questa sopportata, e che non può, pertanto, essere esclusa dal novero di quelle recuperabili, in applicazione del principio della soccombenza, nella misura del corrispettivo liquidato dal giudice (Cassazione, sentenza 7551/2011).
Ciò nonostante, tale principio trova unica deroga nelle ipotesi in cui la parte vittoriosa è soggetto passivo Iva e la vertenza riguarda l’esercizio della propria attività di impresa, arte o professione. In tali casi, infatti, è la stessa parte vittoriosa che deve versare l’Iva al suo difensore in quanto ha titolo a esercitare la detrazione dell’imposta (exarticolo 19 del Dpr 633/1972) della quale subisce quindi anche la rivalsa economica.Il professionista della parte vittoriosa, infatti, deve chiedere direttamente al soccombente solo l’importo relativo al suo onorario e alle spese processuali, e non anche quello relativo all’Iva, in quanto avrebbe due volte la stessa somma di denaro: una volta dal cliente abilitato a detrarre l’imposta, l’altra dalla parte soccombente (Cassazione, sentenze 2474 e 13659 del 2012).


Fonte: Agenzia Entrate

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