La sentenza 88/01/14 del 13 febbraio 2014 della Commissione tributaria regionale di Trieste ha confermato, in ordine alla debenza delle sanzioni (ponendosi nell’alveo tracciato dal principale orientamento del giudice di legittimità), che l’articolo 37-bis del Dpr 600/1973, disconoscendo il valore degli atti elusivi sotto il profilo tributario, ha come effetto l’irrogazione della sanzione ex decreto legislativo 472/1997.
Il fatto
Come evidenziato dai giudici tributari del riesame nel preambolo alla parte motiva, a seguito di verifica contabile e fiscale effettuata sull’anno d’imposta 2006, veniva redatto e notificato un processo verbale di constatazione. Poiché nel pvc era contestata un’operazione potenzialmente elusiva, l’ufficio provvedeva a notificare una “richiesta di chiarimenti” ai sensi dell’articolo 3-bis, comma 4, del Dpr 600/1973.
In assenza di produzione nei termini di legge, ovvero entro 60 giorni dalla ricezione della “richiesta di chiarimenti”, di alcuna memoria scritta, l’Agenzia delle Entrate emetteva avviso di accertamento, impugnato dal contribuente con ricorso introduttivo avanti la magistratura tributaria.
Lo svolgimento del processo
La Ctr specifica che la questione controversa ha per oggetto le perdite derivanti da cessione pro-soluto di crediti, ritenute indeducibili in quanto prive dei requisiti di certezza e precisione, rientranti in un disegno elusivo ai sensi dell’articolo 37-bis, comma 3, lettera c), del Dpr 600/1973.
In particolare, avverso i motivi di doglianza rappresentati al giudice di prime cure, l’ufficio evidenziava, a comprova dell’abuso del diritto messo in atto, l’assenza non solo di un vantaggio economico, ma anche di un vantaggio finanziario, ancorché quest’ultimo non richiesto esplicitamente dalla norma de qua. L’Agenzia si presentava in giudizio documentando sia l’aggiramento di obblighi e divieti tributari sia l’indebito risparmio d’imposta attuati dal contribuente. Per questo motivo, secondo la tesi dell’Amministrazione, la sanzione, una volta dimostrata l’elusività dell’operazione, andava comminata secondo l’articolo 1, comma 2, Dlgs 471/1997.
Con ampia e articolata motivazione, la Ctp riteneva infondati i motivi del ricorso introduttivo, confermando la legittimità dell’accertamento nei confronti dell’operazione elusiva.
Per quanto riguarda le sanzioni, invece, “tenuto conto che nell’art. 37bis non è specificamente prevista la comminazione di alcuna sanzione e che nel nostro ordinamento è prevista la sanzione in caso di violazione di una norma, a questo Collegio sembra che, in assenza di una specifica previsione normativa, non debbano essere comminate sanzioni in relazione ad un comportamento ritenuto elusivo della società ricorrente”.
Con appello principale, l’ufficio gravava nel punto di soccombenza la sentenza parzialmente favorevole, ritenendo violati e falsamente applicati l’articolo-37-bis del Dpr 600/1973 e l’articolo 1, comma 2, del Dlgs 471/1997, anche dove la Commissione non aveva considerato che, secondo un’interpretazione sistematica e logica di tale normativa, il tentativo di elusione, scoperto e accertato dal Fisco, se non sanzionato avrebbe comportato, in capo al contribuente, gli stessi oneri tributari che gli sarebbero derivati da una condotta corretta.
Il giudizio di primo grado
Nelle motivazioni della sentenza di primo grado, la Ctp, al fine di sostenere l’insanzionabilità del comportamento elusivo, inizia il proprio ragionamento richiamando, correttamente, il citato articolo 1 del decreto sulle sanzioni tributarie (Dlgs 471/1997) affermando che “la dichiarazione (risulta) infedele allorché nella stessa sia indicato un reddito imponibile inferiore a quello accertato o comunque un'imposta inferiore a quella dovuta … si applica la sanzione amministrativa ...”.
Il Collegio prosegue, poi, richiamando, ancora una volta correttamente, il chiaro orientamento contenuto nella sentenza 25537/2011 della Cassazione secondo cui, per l’applicazione delle sanzioni amministrative, la norma specifica non considera quale criterio scriminante la violazione della legge o la sua elusione o aggiramento, essendo necessario e sufficiente che le voci di reddito evidenziate nella dichiarazione siano inferiori a quelle accertate o siano “indebite”, aggettivo espressamente menzionato nell’articolo 37-bis del Dpr 600/1973.
Nonostante questa doppia corretta premessa, di natura normativa e giurisprudenziale, la Ctp ritiene, però, che “nel caso dell’elusione, in situazione di incertezza circa il quadro normativo da applicare, la sanzione (è) rappresentata già di per sé dal recupero a tassazione che discende dal disconoscimento degli effetti fiscali di un comportamento che, dal punto di vista giuridico-formale, non ha violato alcuna disposizione di legge”.
Questa affermazione, fondata sulla supposta presenza di un quadro normativo caratterizzato, nel caso di specie, da incertezza, contrasta, però, con un’altra pronuncia della Cassazione, la sentenza 4785/2007, conforme, invece, alla tesi della sanzionabilità delle operazioni elusive,.
Infatti, la Corte suprema, rispetto a forme di abuso degli schemi contrattuali civilistici piegati a fini distorsivi senza alcun vantaggio economico, ha reputato che le pattuizioni dirette a eludere, in tutto o in parte, la normativa fiscale non implicano di per sé la nullità del contratto stesso, in quanto trovano nel sistema tributario le relative sanzioni.
Per di più, si osserva la presenza di una contraddizione argomentativa quando il giudice di primo grado ritiene, dapprima, che la sanzione sia già in re ipsa in ogni comportamento elusivo (“la sanzione (è) rappresentata già di per sé dal recupero a tassazione”) ritenendo, in tal modo, che il citato articolo 37-bis sia disposizione sanzionatoria, per poi pronunciarsi in modo difforme nella chiusa delle proprie considerazioni finali affermando che “nell’art. 37bis non è specificamente prevista la comminazione di alcuna sanzione … sembra … non debbano essere comminate sanzioni in relazione ad un comportamento ritenuto elusivo”. Delle due l’una: o il comportamento è sanzionabile – e allora bisogna applicare la chiara disposizione prevista dall’articolo 1, comma 2, del Dlgs 471/1997 non prevedendo, l’articolo 37-bis del Dpr 600/1973, aspetti sanzionatori – oppure non lo è.
La giurisprudenza nazionale e comunitaria
A supporto del proprio iter motivazionale di annullamento delle sanzioni, il Collegio di prima istanza richiama la sentenza 12042/2009 della Cassazione che, però, è da ritenersi superata, stante il successivo orientamento non solo delle già nominate sentenze 25537/2011 e 4785/2007, ma anche dell’ulteriore conforme pronuncia 12249/2010, la quale precisa che “l’accertamento di un maggiore imponibile (…) conseguente al disconoscimento del contratto di comodato per il suo carattere abusivo, non comporta un’automatica esclusione delle sanzioni dovendosi applicare la relativa disciplina”. Ciò significa che di norma le sanzioni debbono essere irrogate.
Peraltro, si sottolinea come l’ultima decisione citata, pronunciandosi in tema di abuso del diritto (e non semplicemente di un’operazione elusiva per la quale è pacifica l’applicazione delle sanzioni), ha affermato che neppure in tale ipotesi vi possa essere un’automatica esclusione delle sanzioni. Nemmeno nei casi di contestazione dell’abuso di diritto, dunque, può escludersi automaticamente l’irrogazione delle sanzioni; spetterà al contribuente dimostrare che esistano i presupposti per l’applicazione di una delle esimenti previste dal legislatore.
Si ricorda, del resto, che la Corte di cassazione, con la sentenza 23633/2008, pronunciandosi sul tema, ha ricordato come “in tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, il potere delle commissioni tributarie di dichiarare l’inapplicabilità delle sanzioni in caso di obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle norme alle quali la violazione si riferisce, (…) deve ritenersi sussistente quando la disciplina normativa, della cui applicazione si tratti, si articoli in una pluralità di prescrizioni, il cui coordinamento appaia concettualmente difficoltoso per l’equivocità del loro contenuto, derivante da elementi positivi di confusione; l’onere di allegare la ricorrenza di siffatti elementi di confusione, se esistenti, grava sul contribuente, sicché va escluso che il giudice tributario di merito debba decidere d’ufficio l’applicabilità dell’esimente, né, per conseguenza, che sia ammissibile una censura avente ad oggetto la mancata pronuncia d’ufficio sul punto”. In definitiva, dunque, il giudizio sull’esistenza dei presupposti che giustificano una possibile disapplicazione delle sanzioni andrà effettuato caso per caso sulla base dei principi generali.
Inoltre, anche le Corti di merito hanno preso conforme direzione nel solco della tesi dell’Amministrazione finanziaria e dell’orientamento giurisprudenziale di legittimità. In particolare, secondo due recenti sentenze (cfr Ctr Firenze 15/31/2013 e Ctr Roma 153/38/2012), la censura sulla mancata espressa previsione di sanzioni nel testo dell’articolo 37-bis non è condivisibile, stante che la distorta applicazione di norme costituisce indebita detrazione di imposta, con conseguente mancato pagamento dei tributi dovuti.
A livello comunitario, la sentenza Halifax (Corte di giustizia europea, C-255/02 del 21 febbraio 2006) aveva stabilito che “la constatazione dell’esistenza di un comportamento abusivo non deve condurre a una sanzione, per la quale sarebbe necessario un fondamento normativo chiaro e univoco”.
In realtà, tale considerazione non deve trarre in inganno l’interprete, in quanto non è affatto applicabile al caso in esame ovvero a operazione elusiva in materia di imposte dirette. Infatti, non va dimenticato che la pronuncia della Cge riguarda l’abuso del diritto che è rinvenibile, per quanto riguarda i tributi armonizzati (dazi, accise, Iva), nei principi fissati dalla normativa comunitaria. Gli stessi giudici europei premettono, con riferimento alle imposte armonizzate, che “l’applicazione della normativa comunitaria non può, infatti estendersi fino a comprendere i comportamenti abusivi degli operatori economici, vale a dire operazioni realizzate non nell’ambito di transazioni commerciali normali, bensì al solo scopo di beneficiare abusivamente dei vantaggi previsti dal diritto comunitario”.
In altri termini, nell’anno 2006, la Cge affermava che, in caso di abuso del diritto discendente dalla violazione di principi ordinamentali e, quindi, non di norme contenute nel diritto positivo, non vi poteva essere sanzione in quanto non specificamente codificata. Invero, in ambito nazionale, è presente una norma, che si estende fino a ricomprendere singoli comportamenti abusivi (rectius elusivi) degli operatori economici: tale norma è rubricata “Disposizioni antielusive” ed è contenuta nell’articolo 37-bis più volte citato.
Il giudizio di secondo grado
Oltre a quanto già evidenziato, i giudici del gravame, nell’accogliere l’appello principale dell’ufficio e nel rigettare quello incidentale del contribuente, stabiliscono che “la deduzione indebita di crediti … ha comportato … un indebito risparmio d’imposta, la cui sanzione non è la ripresa a tassazione operata dall’Ufficio … ma la sanzione amministrativa irrogabile …”.
Tale statuizione si collega inequivocabilmente con la tassonomia delle norme tributarie che possono distinguersi, lo ricordiamo, in quattro diverse tipologie: sostanziali, procedimentali, processuali e sanzionatorie.
Le norme sostanziali o impositrici (come l’articolo 37-bis del 600/1973) sono quelle che introducono e disciplinano il tributo. Le norme sanzionatorie, invece, (come l’articolo 1 del Dlgs 471/1997) sono quelle che prevedono l’irrogazione di sanzioni amministrative (o penali) a seguito della violazione delle norme sostanziali. Ritenere che non vadano applicate sanzioni alle operazioni elusive in quanto la norma sostanziale non le prevede direttamente sarebbe come affermare che qualsiasi violazione di norme sostanziali, come quelle contenute nel Tuir oppure nel decreto Iva che, come noto, non prevedono direttamente nel loro corpo la sanzione, non potrebbero essere sanzionate. Mentre, va da sé che a tali norme sostanziali si applicano le norme sanzionatorie del Dlgs 471/1997 (“Riforma delle sanzioni tributarie non penali in materia di imposte dirette, di Iva e di riscossione dei tributi …”).
Perciò, a fronte di una violazione come quella oggetto della controversia in esame, non può che essere applicata una sanzione amministrativa secondo i principi generali disposti dal decreto sulle sanzioni tributarie, così come attestato dalla Ctr Trieste con la sentenza 88/01/14 del 13 febbraio 2014: “l’art. 37bis DPR 600/1973, nel rendere inopponibili all’Amministrazioni Finanziaria gli atti elusivi, ne disconosce il valore sotto il profilo tributario per avere essi indebitamente sottratto a tassazione materia imponibile e, in tale effetto, detta sottrazione non può sfuggire alla connessa sanzione ex D. Lgs. 472/1997 trattandosi di norma tributaria, a conoscenza del contribuente che ha posto in essere una operazione elusiva, rivelatasi tale per non aver saputo o potuto dimostrarne l’insussistenza”.
Fonte: Agenzia Entrate
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