La terza sezione penale della Cassazione, con la sentenza 9635/2014, ha accolto, con rinvio, il ricorso presentato dalla procura della Repubblica contro la decisione di non luogo a procedere emessa dal Gip nei confronti di un professionista accusato di aver sottratto materia imponibile al fisco italiano, utilizzando come intermediaria, nella riscossione dei compensi, una società estera.
Per l’accusa, la società è stata utilizzata come schermo interposto, con l’obiettivo di rivestire “una funzione strettamente passiva, di mera intestataria di negozi giuridici produttivi di reddito, assolvendo la prevalente finalità di occultarne l’effettivo titolare”.
Difatti, lo schema negoziale adottato dall’imputato (acquisizione di pacchetto azionario) e le modalità di attribuzione dei compensi costituivano, a parere della Corte, “un tipico caso di interposizione reale, contrastato dall’articolo 37, terzo comma, del Dpr n. 600 del 1973, idonea a configurare, in capo all’imputato, un’evasione fiscale perpetrata mediante il trasferimento della materia imponibile su un soggetto non residente in Italia”.

Il fatto
La condotta illecita ha origine da un’operazione di acquisizione, da parte di un fondo di rilevanza internazionale, di alcune società, inclusa quella lussemburghese partecipata dall’imputato con il 95% del capitale sociale. In particolare, a quest’ultima, avendo avuto un ruolo decisivo nella conduzione delle trattative di vendita, è stato riconosciuto – da parte degli altri soci cedenti – un corrispettivo definito “carried interest”.

Differente la tesi formulata dall’accusa, secondo la quale il “carried interest” per l’operazione finanziaria svolta è da attribuire unicamente al professionista/imputato e non alla società estera.
Solo lui, difatti, era in grado di perseguire, attraverso la sua consolidata esperienza imprenditoriale e “la sua capacità di condurre le trattative, gli obiettivi di performance fissati negli accordi convenzionali”.
Inoltre, l’imputato è stato il solo “dominus nella conduzione dell’intera trattativa curata per gli interessi della parte venditrice dei titoli azionari”, in quanto la società lussemburghese non disponeva di un’effettiva struttura organizzativa ed era rimasta estranea alle attività di consulenza.

A favore dell’accusa, per altro, è emerso un quadro indiziario coerente e univoco. Da una parte, il “carried interest” è stato riconosciuto anche a due dei più stretti collaboratori dell’imputato; dall’altra, l’imputato si era impegnato a non cedere la propria quota fino al perfezionamento della cessione del pacchetto azionario.

Il Gip ha rigettato la richiesta di rinvio a giudizio, ritenendo che l’intera operazione non fosse elusiva “perché volta semplicemente a sovraremunerare il valore di una partecipazione”.

Il procuratore, conseguentemente, ha presentato ricorso per cassazione, denunciando l’erronea applicazione dell’articolo 37, comma 3, del Dpr 600/1973.

Decisione e osservazioni
La motivazione della sentenza impugnata, osservano i giudici, non può escludere in radice la configurabilità di un’interposizione fittizia penalmente rilevante, “visto che lo stesso giudice di merito ammette che il carried interest (compenso) per l’operazione finanziaria svolta era stato riconosciuto all’imputato a titolo personale”.

Di certo i giudici di merito, nel rigettare la richiesta di rinvio a giudizio, non hanno superato l’obiezione più importante: cioè quella secondo cui le attività andavano ricondotte a prestazioni professionali “personalmente svolte dall’imputato, rispetto alle quali la società estera – la sola destinataria formale dei compensi – è rimasta del tutto estranea”.

Tanto premesso, il principio di diritto che emerge dalla lettura della sentenza è il seguente: l’attribuzione al professionista di situazioni reddituali – formalmente e apparentemente attribuibili a una società estera, considerata mera “interposta” (nella specie, società lussemburghese) – è ammessa in presenza di indizi gravi, precisi e concordanti.

In tal senso dispone anche il dettato normativo: l’articolo 37, comma 3, Dpr 600/1973, infatti, prevede che gli uffici competenti, al fine di accertare l’operazione elusiva, possono avvalersi della “prova per presunzione” (cfr Cassazione, 7338/1999, 10345/2007, 27964/2009), gravando sul contribuente “l’onere di allegare la esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino operazioni in quel modo strutturate” (cfr Corte Cassazione 25374/2008, 1465/2009 20029/2010)”.


Fonte: Agenzia Entrate

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