L’assenza di liquidità non libera da responsabilità penale il sostituto d’imposta che ometta di versare le ritenute certificate, ex articolo 10-bis del Dlgs 74/2000, “richiedendosi la mera consapevolezza della condotta omissiva (cfr. Sez. 3, Sentenza n. 25875 del 26/05/2010 ud. dep. 07/07/2010 Rv. 248151)”.
Queste le conclusioni della Corte suprema che, con la sentenza n. 3689 del 28 gennaio 2014, nel confermare la condanna del rappresentante legale di una società per il reato di omesso versamento di ritenute certificate, ha ribadito (cfr Cassazione penale, sentenza 35895/2011) che, per l’imputabilità del fatto tipico, rileva l’elemento soggettivo del dolo generico, ossia la coscienza e la volontà del soggetto obbligato di omettere i versamenti dovuti, a prescindere dalla criticità economica prospettata.

Sul punto la Corte di legittimità ha sempre assunto un atteggiamento di particolare rigore (cfr Cassazione ss.uu. 37424/2013; sezione penale, 35895 e 29616 del 2011). Cioè, l’assenza di liquidità non può escludere in toto la colpevolezza del soggetto obbligato o anche l’antigiuridicità del fatto tipico in funzione di causa scriminante (si pensi allo stato di necessità a cui fa riferimento parte della dottrina).
La mancanza di liquidità è stata al massimo valutata come circostanza attenuante.

Diverso l’approccio dei tribunali di merito che, in più occasioni, hanno ritenuto che “la mancanza assoluta di mezzi economici” o comunque “la crisi acclarata di liquidità” escluderebbero la responsabilità penale per difetto dell’elemento psicologico tipico del reato (Tribunale Roma 7 maggio 2013 e 26 gennaio 2001).

La norma
L’articolo 10-bis del Dlgs 74/2000, introdotto dalla legge 311/2004, a decorrere dall’1 gennaio 2005 punisce con la reclusione da 6 mesi a 2 anni chiunque non versa, entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione dei sostituti d’imposta, ritenute certificate ai sostituiti, per un ammontare superiore a 50mila euro nel periodo d’imposta.
Il delitto de quo è reato proprio perché può essere commesso esclusivamente da colui che riveste la qualità di sostituto di imposta in base alle disposizioni contenute nel titolo III del Dpr 600/1973.

Sotto il profilo oggettivo, invece, il delitto si caratterizza per una condotta complessa costituita dal rilascio della certificazione ai sostituiti delle ritenute effettuate e dall’omesso versamento di queste da parte del sostituto entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale.
Parte della dottrina e della giurisprudenza sostengono che l’obbligo del versamento delle ritenute scaturirebbe solo al momento della effettiva corresponsione della retribuzione, sulla quale le ritenute stesse debbono essere operate.

Su questo punto, la Corte di cassazione, con sentenza 28922/2011, ha affermato, che “in tema di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali, ai fini della configurabilità del reato, è necessaria la prova del materiale esborso della retribuzione e che il relativo onere probatorio grava sulla pubblica accusa, che può però assolverlo sia mediante il ricorso a prove documentali che testimoniali ovvero attraverso il ricorso alla prova indiziaria”.
Costituisce d’altra parte principio comunemente accettato (cfr Cassazione 1855/2011 e sezioni unite 2764/2003) che il mancato pagamento della retribuzione al dipendente determina la non configurabilità del delitto di omesso versamento delle ritenute previdenziali posto che, in tale evenienza, verrebbe a mancare quella condotta di “appropriazione indebita” presupposto indefettibile per la contestazione della fattispecie criminosa.

Per quanto concerne l’elemento soggettivo, invece, come anticipato, vale il dolo generico.
Il reato, inoltre, come chiarito dai giudici nella sentenza in esame, “si consuma alla scadenza del termine per la presentazione della dichiarazione annuale e che solo con il maturare di tale termine si verifica l'evento dannoso per l'erario, previsto dalla fattispecie penale”.

Il fatto
Il rappresentante legale di una società veniva condannato dal Tribunale di Roma, sia in primo sia in secondo grado, per il reato di cui all’articolo 10-bis del Dlgs 74/2000, avendo omesso di versare all’erario le ritenute risultanti dalle certificazioni rilasciate ai lavoratori dipendenti.
Il condannato ricorreva in cassazione denunziando “la mancanza, contradittorietà e manifesta illogicità della motivazione per insussistenza dell’elemento oggettivo e soggettivo del reato”.
Nel caso concreto, veniva dimostrata, a parere del ricorrente, la sola condotta omissiva (omesso versamento), ma non quella attiva (ritenute e successivo rilascio della certificazione).
Di fatto, osservava la Corte, la sentenza impugnata non motivava “sulla prova – spettante all’accusa – delle certificazioni attestanti le ritenute operate dal sostituto d’imposta”.
I giudici di legittimità annullavano con rinvio.

La decisione
Il Collegio, pur accogliendo parzialmente i motivi di gravame, conferma il principio di diritto secondo cui il reato di omesso versamento di ritenute “è punibile a titolo di dolo generico, richiedendosi la mera consapevolezza della condotta omissiva”.
Opinare in questi termini significa ampliare l’ambito di responsabilità del sostituto, visto che, per integrare il fatto tipico, almeno sotto il profilo psicologico, basta la volontà di non versare.

La scelta del legislatore si spiega con l’intento di garantire al lavoratore il diritto a una regolare posizione previdenziale, punendo penalmente il datore omettente; tutela che viene garantita dalla Costituzione, ex articoli 4, 35, 36, 37, 38 e seguenti.
Ciò evidenzia l’indipendenza del concetto di “retribuzione” da quello di “previdenza” e la necessità di tutela costituzionale di quest’ultima.
Difatti, se il datore di lavoro omette di versare la retribuzione, compie un illecito civile; se, invece, omette di versare le trattenute, commette un illecito penale, ossia un reato.

Il diverso trattamento sanzionatorio, per alcuni, si giustifica sulla circostanza che il legislatore ha inteso reprimere non il fatto omissivo del mancato versamento dei contributi, ma il più grave fatto commissivo dell’appropriazione indebita da parte del datore di lavoro di somme prelevate dalla retribuzione dei lavoratori dipendenti.
Quanto esposto spiegherebbe, per altro, la scelta normativa di non imputare il fatto tipico a titolo di dolo specifico, contrariamente a quanto avviene per gli altri reati fiscali.
Di certo, un’imputazione a titolo di dolo specifico avrebbe reso più gravoso l’onere dell’accusa, tenuta a provare, tra gli elementi costitutivi del fatto tipico, anche “lo scopo specifico” di evadere.


Fonte: Agenzia Entrate

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