Nella sentenza n. 24929/2013, i Giudici di legittimità tornano a occuparsi della nota questione delle operazioni contestate come inesistenti e, in particolare, di quelle soggettivamente inesistenti riconducibili nell’ambito delle “frodi carosello”, caratterizzate da acquisti effettuati dal contribuente che esercita il diritto alla detrazione Iva da soggetto diverso da quello interposto (o “fantasma”) che ha emesso la fattura, incassando l’Iva e omettendo poi di versarla all’Erario.

Nella propria decisione, la Corte suprema fornisce un ampio e articolato quadro della giurisprudenza di legittimità e comunitaria sull’argomento e, in particolare, di quella relativa alla ripartizione dell’onere probatorio tra Amministrazione finanziaria e contribuente.
Dopo aver premesso che il diritto alla detrazione di cui all’articolo 19 del Dpr 633/1972 non può prescindere dalla regolarità delle scritture contabili e che a questi effetti la fattura è documento idoneo a rappresentare un costo dell’impresa (cfr Cassazione 12 maggio 2011, n. 10414), la Corte di legittimità ha chiarito che, nell’ipotesi in cui venga contestata l’inesistenza oggettiva o soggettiva dell’operazione, non spetta al contribuente provare che l’operazione è effettiva, ma spetta all’Amministrazione, che adduce la falsità del documento, provare che l’operazione commerciale, oggetto della fattura, in realtà non è mai stata posta in essere (cfr Cassazione 7 agosto 2008, n. 21303, e 23 settembre 2005, n. 18710).

A questi effetti il Collegio ricorda come - per consolidata giurisprudenza di legittimità - tale onere possa essere assolto anche attraverso elementi presuntivi, che dovranno, peraltro, essere dotati di gravità, precisione e concordanza (in tal senso, cfr Cassazione 19 ottobre 2007, n. 21953).
In tal caso, dovrà essere fornita dal contribuente la prova contraria (in questo senso, cfr Cassazione 23 febbraio 2010, n. 4306).

Con particolare riguardo poi alle ipotesi riconducibili alle “frodi carosello” realizzate mediante l’interposizione di soggetti diversi da quelli rappresentati in fattura (“fantasma” ovvero “cartiere”), il Collegio giudicante ha ribadito che, una volta che l’Amministrazione finanziaria abbia fornito la prova dell’interposizione fittizia della società “cartiera o fantasma” nell’operazione commerciale effettivamente posta in essere dal cessionario/committente con un diverso soggetto (cedente/prestatore) che non figura nella fatturazione, sarà onere del contribuente (cessionario/committente) che ha portato in detrazione l’Iva fornire la prova contraria che l’apparente cedente/prestatore non è un mero soggetto (fittiziamente) interposto e che l’operazione è stata “realmente” conclusa con esso (in tal senso, ex multis, cfr Cassazione 29 luglio 2009, n. 17377).

Sul punto, la Corte suprema ha, peraltro, anche precisato che la prova contraria dell’esistenza dell’operazione non è condicio sine qua non per il cessionario per poter legittimamente portare in detrazione l’Iva relativa a operazioni contestate come inesistenti.
Il Collegio ha, infatti, ribadito che la mancata prova contraria non determina l’automatica perdita per il cessionario del diritto alla detrazione, ben potendo questi, comunque, dimostrare la propria buona fede, intesa come ignoranza incolpevole degli accordi fraudolenti volti alla evasione dell’Iva intercorsi tra il soggetto cedente/commissionario che ha emesso la fattura e i soggetti intervenuti nelle operazioni precedenti o successive.

Il Collegio ha, a questi effetti, ricordato che la Corte di giustizia si è a più riprese pronunciata nel senso che la buona fede del cessionario legittima la detrazione dell’Iva da questi assolta su operazioni in relazioni alle quali altri abbiano commesso illeciti (cfr Corte di giustizia Ue 26 settembre 2012, causa n. C-324/11; 21 giugno 2012, cause riunite nn. C-80/11 e 142/11; 11 maggio 2006, n. C-384/04; 6 luglio 2006, n. C-439/04 e C-440/04).
E a questo indirizzo interpretativo si è uniformata anche la giurisprudenza della Suprema corte (cfr Cassazione 14 dicembre 2012, n. 23074, e 13 marzo 2013, n. 6229).

Dopo aver doviziosamente ricostruito la posizione della giurisprudenza nazionale e comunitaria in tema di operazioni inesistenti e, in particolare, in tema di ripartizione dell’onere della prova tra contribuente e Amministrazione finanziaria, la Corte ha chiarito che, ai fini della valutazione degli elementi probatori forniti dalle parti, rimessa al giudice di merito, questi, per non incorrere in sede di legittimità nel vizio logico della motivazione – quale quello invocato dall’Avvocatura nel ricorso sub iudice (omessa o insufficiente motivazione ex articolo 360, n. 5 cpc, ante modifica a opera del Dl 83/2012) non può prescindere, nel giudizio di selezione e prevalenza dei mezzi di prova, dal compiuto esame degli elementi probatori, sia considerati singolarmente che nelle loro interrelazioni (verificando eventuali nessi di compatibilità od esclusione logica), potendo pervenire solo all’esito di tale esame a esprimere un motivato giudizio in ordine alla idoneità o meno degli stessi, in relazione ai requisiti di precisione, rilevanza e convergenza, a raggiungere la consistenza di prova presuntiva.


Fonte: Agenzia Entrate

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