I versamenti sospetti sul conto corrente bancario della collaboratrice domestica riconducibili al suo datore di lavoro possono giustificare l'accusa per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici.
E' quanto ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza n. 3438 del 23 gennaio.

Il fatto
Rigettando la richiesta di riesame formulata nell'interesse di un soggetto indagato per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, previsto dall'articolo 3 del Dlgs n. 74/2000, il tribunale del riesame confermava il decreto con cui il pubblico ministero aveva in precedenza convalidato il sequestro disposto dalla Guardia di finanza.
La contestazione del reato fiscale ipotizzato dal Pm originava dal presupposto che sul conto corrente intestato alla collaboratrice domestica dell'indagato erano affluite consistenti somme di denaro (per un ammontare di circa 285mila euro) a lui riconducibili e aventi causali diverse rispetto a quelle lecite indicate.
Tali somme erano state considerate provento del reato di evasione fiscale in relazione alla compravendita di prodotti farmacologici a uso dermatologico e la documentazione contabile prodotta dall'indagato non era apparsa sufficiente a smentire tale assunto.

Le motivazioni
I giudici del riesame avevano confermato il sequestro, evidenziando che esistevano elementi sufficienti per ritenere fondata l'imputazione, sia pure allo stato provvisoria, formulata dal pubblico ministero.
Inoltre, le somme affluite sul conto corrente formalmente intestato alla collaboratrice domestica, ma sostanzialmente riconducibile all'indagato, superavano la soglia di punibilità prevista dal citato articolo 3 del decreto legislativo n. 74/2000.

Al riguardo, vale la pena ricordare che, affinché sia configurabile il reato di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, l'imposta evasa deve essere superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a 30mila euro e l'importo totale degli elementi attivi sottratti all'imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi fittizi, deve essere superiore al 5% dell'ammontare complessivo di quelli attivi indicati in dichiarazione o, comunque, superiore a un milione di euro.

Il tribunale, infine, riconosceva anche la sussistenza del rapporto di pertinenzialità tra le cose sequestrate (due pc e alcune fatture) e il reato contestato, essendo le prime necessarie per verificare il complesso dei rapporti commerciali intrattenuti dall'indagato e il carattere effettivo e/o fittizio degli stessi.

A questo punto, l'accusato ricorreva per cassazione lamentando violazione di legge per:
erronea applicazione della legge penale, con riferimento alla ritenuta sussistenza del fumus commissi delicti che aveva giustificato l'applicazione della misura cautelare
omessa motivazione con riferimento al superamento della soglia di punibilità.

La sentenza
La Corte di cassazione, con la sentenza in esame, ha dichiarato inammissibile il ricorso avverso l'ordinanza del tribunale del riesame e ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di 1.000 euro alla Cassa delle ammende.
Al riguardo, i giudici di legittimità hanno evidenziato che l'organo giurisdizionale, dopo aver preso in considerazione la documentazione prodotta dalla difesa, ha escluso che le somme versate sul conto corrente della collaboratrice domestica fossero riconducibili a operazioni lecite ovvero che costituissero la remunerazione della sua attività lavorativa.

Inoltre, il ricorrente ha impropriamente cercato di ricondurre nell'area dell'erronea applicazione della legge penale la valutazione operata dal tribunale, laddove si è affermata la sussistenza di ricavi e di redditi per complessivi 280mila euro senza tenere conto dei costi e calcolando quindi gli importi al lordo e non al netto. Per la Corte suprema, infatti, tale genere di censure - a fronte dell'analitica motivazione del tribunale (che ha tenuto conto dell'ammontare di somme affluite sul conto corrente intestato alla collaboratrice domestica dell'indagato ma ritenute di pertinenza di quest'ultimo che non ha sostanzialmente contestato la circostanza) - si risolvono in motivi non proponibili in sede di legittimità.
Peraltro, l'autorità giudiziaria, "in sede di riesame di provvedimento cautelare emesso per un reato tributario non è tenuta ad accertare l'imponibile e l'imposta evasa contestata al contribuente, in quanto l'accertamento incidentale proprio del giudizio di riesame non prevede l'esercizio di poteri istruttori da parte del giudice della cautela" (cfr Cassazione, sezione III, sentenza n. 43695/2011).

Con riferimento all'altro motivo di ricorso, la Corte di cassazione ha escluso che la motivazione del provvedimento impugnato in merito al superamento della soglia di punibilità, risulti mancante o apparente e senza un filo logico.
Ciò in quanto il tribunale ha analizzato compiutamente e in modo coerente il materiale emerso dalle indagini e in più si è dato carico di affrontare le varie questioni (compresa quella concernente la soglia di punibilità) alla luce delle argomentazioni difensive che poi ha disatteso in modo convincente.
In conclusione, tutti i motivi di ricorso sono stati disattesi dalla Corte suprema, che ha quindi confermato il sequestro a carico del ricorrente.


Fonte: Agenzia Entrate

0 commenti:

 
Top