Per la Commissione tributaria provinciale di Terni la norma comportava un’ingiustificata disparità di trattamento tra i soggetti che si sono resi responsabili di fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile o amministrativo, per i quali i costi e le spese riconducibili a detti fatti, atti o attività sono deducibili, e i soggetti che si sono resi responsabili di fatti, atti o attività qualificabili come reato, per i quali i costi e le spese riconducibili a detti fatti, atti o attività sono invece indeducibili.
La Corte Costituzionale ha dichiarato la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale del comma 4-bis dell’art. 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi correttivi di finanza pubblica), aggiunto dal comma 8 dell’art. 2 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2003), sollevate dalla Commissione tributaria provinciale di Terni, in riferimento agli artt. 3, 27, secondo comma, e 53 della Costituzione.

Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo indicava le ragioni a sostegno delle sollevate questioni, dichiarando di fare integralmente proprie le argomentazioni prospettate al riguardo dalla società ricorrente e da lui dettagliatamente riportate nell’ordinanza di rimessione.

Tuttavia, le questioni – ancorché sollevate con ordinanza autosufficiente – sono manifestamente inammissibili per inadeguata motivazione sulla rilevanza.

Infatti, il giudice rimettente non ha considerato che gli avvisi di accertamento oggetto dei giudizi principali riuniti sono stati impugnati, tra l’altro, perché:

a) la società ricorrente non potrebbe «essere chiamata a rispondere di reati contestati ai propri amministratori»;

b) ai sensi del denunciato comma 4-bis dell’art. 14 della legge n. 537 del 1993, i costi riconducibili a fatti di reato dovrebbero ritenersi non deducibili solo nel caso in cui detti costi siano correlati a proventi che non concorrono alla formazione del reddito imponibile;

c) non indicano le ragioni della asserita sussistenza del reato;

d) muovono dall’errata interpretazione della suddetta disposizione, secondo cui sarebbe sufficiente, per l’indeducibilità dei costi, che questi siano riconducibili a fatti iscritti nel registro delle notizie di reato.

Detti motivi di ricorso, risolvendosi nella negazione della possibilità di considerare indeducibili i costi ripresi a tassazione con gli avvisi impugnati, sono logicamente e giuridicamente prioritari rispetto alle questioni di legittimità costituzionale del denunciato comma 4-bis, parimenti prospettate dalla società ricorrente.

Pertanto, la Commissione tributaria rimettente, nel sollevare tali questioni, avrebbe dovuto preliminarmente affermare – motivando anche solo sommariamente sul punto – l’infondatezza dei suddetti motivi di ricorso, perché questi, se accolti, avrebbero determinato l’annullamento degli avvisi di accertamento impugnati e la conseguente irrilevanza delle questioni medesime.

Nel sollevare la questione di legittimità, la Commissione tributaria provinciale di Terni dubitava, in riferimento agli artt. 3, 27, secondo comma, e 53 della Costituzione, della legittimità del comma 4-bis dell’art. 14 della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (Interventi correttivi di finanza pubblica), aggiunto dal comma 8 dell’art. 2 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2003); che, in forza della disposizione censurata: «Nella determinazione dei redditi di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti».

Il giudice a quo muoveva dal presupposto che la locuzione «qualificabili come reato», contenuta nella disposizione censurata, «si presta […] ad essere interpretata» secondo la prassi applicativa dell’Agenzia delle entrate, nel senso che è sufficiente, per l’indeducibilità dei costi, che questi siano riconducibili a fatti iscritti nel registro delle notizie di reato.

Secondo il giudice rimettente, tale norma, cosí interpretata, si poneva in contrasto con:

a) l’art. 3 Cost., perché comporta un’ingiustificata disparità di trattamento tra i soggetti che si sono resi responsabili di fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile o amministrativo, per i quali i costi e le spese riconducibili a detti fatti, atti o attività sono deducibili, e i soggetti che si sono resi responsabili di fatti, atti o attività qualificabili come reato, per i quali i costi e le spese riconducibili a detti fatti, atti o attività sono invece indeducibili;

b) l’art. 27, secondo comma, Cost., perché, col prevedere l’indeducibilità dei costi e delle spese anche nel caso in cui il reato al quale gli stessi sono riconducibili non sia stato accertato con condanna definitiva, produce un effetto «sanzionatorio ed afflittivo per il contribuente» (o di «sanzione indiretta»), in contrasto con la presunzione di non colpevolezza;

c) gli artt. 3 e 53 Cost., perché comporta l’assoggettamento a imposta di componenti negative del reddito, non espressive della capacità contributiva dell’impresa.

(Ordinanza Corte Costituzionale 03/03/2011, n. 73)


Fonte: IPSOA

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