La mancata tenuta delle scritture contabili legittima di per sé il ricorso all’accertamento induttivo emesso sulla base di presunzioni prive del requisito della gravità, precisione e concordanza e comporta la conseguente inversione dell’onere della prova a carico del contribuente.
Lo ha affermato a chiare lettere la Corte di cassazione con la sentenza 6623 del 23 marzo.

Il fatto
Una società veniva sottoposta a controllo per più annualità con l’impiego di diverse metodologie di accertamento (interessanti spunti di riflessione possono cogliersi nella vicina sentenza n. 6624, parte la stessa contribuente, che nel decidere sul recupero relativo a fatture per operazioni inesistenti, affronta il tema della non efficacia del giudicato penale).
In relazione all’anno oggetto della sentenza in commento, la mancata istituzione del libro degli inventari costituiva requisito, ai sensi dell’articolo 39, comma 2, lettera c), del Dpr 600/1973, per procedere alla ricostruzione induttiva del reddito.
Tale facoltà era stata inopinatamente disconosciuta dai giudici di secondo grado, i quali rilevavano che la sola mancata tenuta del libro degli inventari non consentiva il ricorso all’accertamento “sintetico” e affermavano che “…il ricorso agli studi di settore e la conseguente applicazione del coefficiente del 75% appare insufficientemente motivato e sotto un certo aspetto arbitrario se non sostenuto dalla certezza di gravi irregolarità contabili…”.

Avverso tale decisione, l’Agenzia delle Entrate, con il motivo di ricorso principale, assumeva la violazione e falsa applicazione del Dpr 600/1973, articoli 14, 15 e 39, poiché la Ctr, pur in assenza del libro degli inventari, aveva ritenuto necessaria, ai fini dell’accertamento, la presenza di elementi gravi, precisi e concordanti.
E’ toccato alla Suprema corte riportare un po’ d’ordine all’interno di una materia che, nonostante sia disciplinata abbastanza linearmente dal richiamato articolo 39, presenta spesso profili di discussione.

Equivoci terminologici e non solo
A differenza dell’accertamento analitico, che è effettuato determinando o rettificando singole componenti (attive o passive) del reddito, l’induttivo (ex articolo 39, comma 2, del Dpr 600/1973) non implica la rettifica analitica delle singole poste, non può applicarsi indiscriminatamente a tutte le fattispecie ma solo in presenza di determinati requisiti e, di contro, può basarsi sulle cosiddette presunzioni semplicissime.
Con riferimento a queste ultime, il primo equivoco da affrontare è quello relativo a un eventuale connotato sanzionatorio del metodo in esame. E’ stato sostenuto da più parti che il poter procedere ad accertamento sulla base di dati comunque raccolti richiamasse l’idea di una procedura sbrigativa e punitiva. Così non è. Non solo perché il risultato plausibile e ragionevole a cui l’Amministrazione tende in ogni tipo di ricostruzione corrisponde, oltre all’interesse del cittadino di subire dei recuperi corretti, anche all’interesse pubblico di emettere avvisi legittimi, ma anche per un’ulteriore coppia di obiezioni.

La prima riguarda il dato di fatto che le disposizioni di cui all’ex articolo 39 si applicano anche a situazioni in cui non sussiste alcuna colpa, ma solo una impossibilità di utilizzare gli strumenti ordinari (una per tutte “scritture contabili non disponibili per forza maggiore”).
La seconda, di ordine sistematico, evidenzia che alla funzione punitiva sono dedicati e congrui gli strumenti del diritto sanzionatorio. Basti richiamare, ad esempio, la norma che sanziona la mancata risposta a inviti e questionari (articolo 11, lettera c, del Dlgs 471/1997).

Altre possibili incomprensioni possono nascere dal fatto che gli accertamenti induttivi (o presuntivi) – anche definiti extracontabili (perché si può prescindere dalla contabilità) – possono, in realtà, essere più o meno analitici a seconda del materiale a disposizione dell’ufficio. Nonostante la lettera della norma indichi la determinazione del reddito di impresa, l’ufficio può ben limitarsi a una determinazione complessiva di alcune voci reddituali o dei soli ricavi o compensi. Per tale ragione, talvolta, è difficile affermare se la quantificazione del reddito sia avvenuta con tale criterio o in base all’articolo 39, comma 1, lettera d), dello stesso Dpr, cioè con il metodo analitico-induttivo, che è caratterizzato dall’avere come scopo naturale l’individuazione in maniera presuntiva dell’“esistenza di attività non dichiarate” o dell’“inesistenza di passività dichiarate”.

Tra un estremo, della ricostruzione presuntiva dell’ammontare del reddito di impresa nel suo complesso, e l’altro, della determinazione del ricavo di una sola operazione, è compresa una serie indefinita di ipotesi intermedie, che a volte si prestano a essere mal interpretate dai giudici di merito. Si pensi a un accertamento effettuato sulla base delle percentuali di ricarico: da un lato, esso è ricostruzione di attività non dichiarate (e per questo potrebbe farsi rientrare nel comma 1 dell’articolo 39), dall’altro, di fatto, può determinare singole voci o tutta la contabilità (quantomeno rispetto alle categorie merceologiche cui si applica la percentuale) e avvicinarsi quindi all’ipotesi di cui al comma 2 dell’articolo 39.

Vademecum induttivo
Non possono invece definirsi ambigue le condizioni che regolano l’accertamento induttivo, per lo meno nel caso in rassegna. Come sopra anticipato, la formulazione dell’articolo 39, comma 2, non lascia dubbi sulla possibilità di determinare il reddito d’impresa sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, con facoltà di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e dalle scritture contabili in quanto esistenti e di avvalersi anche di presunzioni prive dei requisiti di gravità precisione e concordanza nelle ipotesi ivi indicate.
Nel caso in esame, la circostanza legittimante di non aver tenuto il libro degli inventari, nei fatti realmente verificatasi, non può venire in discussione, in quanto in diritto espressamente prevista dal combinato disposto dell’articolo 39, comma 2, lettera c), e dell’articolo 14, comma 1, lettera a).

Recentemente la Cassazione ha deciso nello stesso senso una vicenda incentrata sull’inattendibilità delle scritture contabili a cui si accompagnava l’omessa dichiarazione dei redditi (ordinanza 3651 del 14 febbraio). In quella occasione, la Corte, stabilita la correttezza del ricorso al metodo induttivo, aveva anche osservato come la responsabilità a fini sanzionatori per tali inadempimenti andasse addossata al contribuente e non al depositario delle scritture contabili.
Pertanto, l’errore in cui sono incorsi i giudici d’appello è difficilmente scusabile. Anche il richiamo allo strumento degli studi di settore, che sarebbe applicabile solo in presenza di gravi irregolarità contabili, non coglie nel segno. In primo luogo, perché l’utilizzo degli studi, ancorché come strumento di indagine, non è legato al rinvenimento di particolari casi di irregolarità contabile. In secondo luogo, anche volendo sostenere tale tesi, dai fatti di causa emerge con chiarezza la certezza sull’irregolarità delle scritture contabili.

Brevi riflessioni
E’ di facile intuizione che, laddove esistono regole precise, è compito degli addetti ai lavori attenervisi. Specie qualora le stesse appaiono così lineari.
La tendenza a voler forzare a tutti i costi la lettera della legge, in nome di una più alta tutela del contribuente, a volte può nascondere un errore di principio.
Anche con le più buone intenzioni, il governo distorto delle disposizioni può attecchire un valore posto alla base dell’intera materia: la certezza del diritto. E la salvaguardia del contribuente non può prescindere dallo stesso.


Fonte: Agenzia Entrate

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