Provare a entrare un po’ più in profondità nel mondo dei principi contabili internazionali. E’ l’obiettivo di una serie di interventi che, senza la pretesa di essere sul punto più capaci di altri (suggerimenti e critiche sono, anzi, bene accetti), intendono costruire un percorso sistematico di analisi degli Ias/Ifrs.
Percorso il cui “primo miglio” non può che essere costituito da una disamina del contesto e delle ragioni che hanno portato l’Unione europea ad abbracciare e a dare forza di legge a standard partoriti da un’istituzione privata – qual era lo Iasc (International accounting standards committee), oggi Iasb (International accounting standards board) – che in diversi punti si differenziano dalle regole italiane di redazione dei bilanci, sintetizzabili in paradigmi diventati oramai, tante le volte sono stati citati, patrimonio di conoscenza comune e generalizzato:
affiancamento del fair value al costo storico come criterio di valutazione
prevalenza della sostanza sulla forma per la rappresentazione dei fatti di gestione
investitori elevati a rango di destinatari principali dell’informativa di bilancio.

Le buone intenzioni dell’Europa
Tutto parte dall’esigenza, avvertita dalle istituzioni europee, di arrivare a un’armonizzazione contabile. La strada? Due distinte direttive, la “quarta” (78/660/Cee) sui conti annuali delle società di capitale, e la “settima” (83/349/Cee) relativa ai bilanci consolidati.

Livello di raggiungimento del risultato: basso. Il riferimento è soprattutto alla prima delle due direttive che, per la numerosità delle opzioni concesse, ha visto un’uniformità delle regole di redazione dei bilanci d’esercizio raggiunta solo a livello nazionale, ma non comunitario. In sostanza, ogni Stato aveva recepito le regole adeguandole al proprio contesto e alla propria tradizione.

In realtà, armonizzazione a parte, occorreva affrontare anche un altro problema, la cui soluzione era rappresentata da un corpo di principi contabili, comuni e accettati. Questo è quanto scritto nella comunicazione COM 95 (508) - Armonizzazione contabile: una nuova strategia nei confronti del processo di armonizzazione internazionale - della Commissione europea al Parlamento: “La quarta e la settima direttiva sul diritto delle società … hanno consentito un miglioramento generale della qualità delle norme contabili e hanno garantito una maggiore comparabilità dei conti … Esse hanno infine permesso il mutuo riconoscimento dei conti ai fini della quotazione dei titoli nelle Borse di tutta l'Unione. Tuttavia… i conti redatti conformemente alle direttive e alle leggi nazionali di attuazione non soddisfano le norme più rigorose prescritte altrove e in particolare gli standard imposti dalla Securities and Exchange Commission negli Stati Uniti. Di conseguenza le grandi società europee che desiderano raccogliere capitali sui mercati internazionali, per lo più alla Borsa di New York, sono obbligate a predisporre a tal fine una seconda serie di conti. Si tratta di un lavoro ponderoso e costoso che costituisce senz'altro uno svantaggio competitivo. La redazione di più serie di conti può dar luogo altresì a confusione. Inoltre le società sono indotte sempre più ad allinearsi a norme contabili (US Generally Accepted Accounting Principles - GAAP) che sono state messe a punto senza alcun apporto europeo. Giacché un numero crescente di Stati membri sta attuando importanti programmi di privatizzazione e il fabbisogno di capitali delle società interessate è in aumento, sempre più società si trovano di fronte a tale problema”.

Quale la soluzione proposta? Esaminare la compatibilità delle norme contabili internazionali in vigore elaborate dallo Iasc (gli Ias) con le direttive contabili, risolvendo gli eventuali conflitti chiedendo allo stesso Organismo di riesaminare lo standard oppure, se strettamente necessario, modificando le direttive contabili.
Ecco che i principi contabili internazionali cominciano a costruire la loro “ascesa al potere”. Ma perché furono individuati come soluzione al problema e, soprattutto, cos’è lo Iasc?

L’International accounting standards committee è l’antenato (non così lontano nel tempo) dello Iasb, che ne ha preso “nominativamente” il posto dal 2001. Sostanzialmente era (è, facendo ora riferimento allo Iasb) un’organizzazione privata istituita a Londra nel 1973 dagli organismi di emanazione dei principi contabili di Australia, Canada, Francia, Giappone, Germania, Messico, Olanda, Usa, Regno Unito e Irlanda (oggi, nello Iasb sono rappresentati oltre 100 Paesi, Italia compresa), allo scopo di elaborare un insieme completo di norme contabili internazionali. Un obiettivo, questo, il cui raggiungimento fu certificato il 17 maggio del 2000 dallo Iosco (International organization of Securities commissions) - l’associazione mondiale degli Organismi nazionali di regolamentazione e controllo delle Borse (tra i cui membri c’è, ovviamente, anche la nostra Consob) - che, con la sua favorevole valutazione, raccomandava agli Stati membri l’incoraggiamento all’utilizzo degli Ias. Dopo tutto, già nel 1998, 210 società Ue avevano pubblicato i loro bilanci conformemente agli Ias, contro le 235 che lo avevano fatto sulla base degli US Gaap.

L’abbracciare gli Ias oppure – considerato anche il bisogno di ottenere il “riconoscimento” sul mercato americano – gli US Gaap era proprio l’alternativa che le Istituzioni europee avevano più a portata di mano. Contro i secondi giocavano, però, due fattori per niente trascurabili. Il primo: i principi contabili statunitensi, per il dettaglio delle loro regole e le tante interpretazioni, avrebbero avuto bisogno di un lungo periodo di assimilazione, in un contesto – l’europeo – differente da quello nell’ambito del quale si erano sviluppati. Il secondo e fondamentale: l’Unione europea non avrebbe avuto alcun ruolo nel loro sviluppo.

Presa questa strada, i passi successivi sono recenti e noti:
la direttiva 2001/65/Ce, avente l’obiettivo di adeguare le altre direttive contabili agli sviluppi della formazione contabile internazionale, in particolare in seno allo Iasc (Iasb) e di consentire l’opzione della valutazione al fair value (valore equo) degli strumenti finanziari (“… I più importanti organismi di normazione contabile nel mondo si stanno orientando, per quanto riguarda la valutazione di questi strumenti finanziari, verso l’abbandono del modello del costo storico a favore del modello di contabilizzazione al valore equo…”)
la direttiva 2003/51/Ce, con lo scopo di eliminare i conflitti esistenti con gli Ias/Ifrs.

Nel mezzo, il regolamento 1606/2002 (che ha reso conseguente e necessaria la seconda delle due direttive sopra elencate), ad elevare gli Ias/Ifrs a rango di norma primaria nella disciplina contabile, da osservare, obbligatoriamente, a partire dall’esercizio 2005 per la redazione dei bilanci consolidati delle società con titoli quotati in uno dei mercati Ue. Il regolamento attribuiva poi agli Stati membri la facoltà di escludere o di estendere l’adozione degli standard internazionali ai bilanci esclusi dall’obbligo primario (principalmente, quelli individuali delle società quotate). L’Italia ha esercito tale opzione con il Dlgs 38/2005.

Occorrerà approfondire, da un lato, il discorso sul controllo che l’Ue ha sul contenuto di uno Ias e, dall’altro, quello sulle scelta fatte dall’Italia. Prima, però, è opportuno inserire qualche altro tassello.

Con la direttiva 2001/65/Ce si è avuta l’apertura al fair value per gli strumenti finanziari. Nella relazione alla proposta di documento si legge questo: “L’introduzione della possibilità o dell'obbligo di contabilizzare al valore equo determinate attività e passività finanziarie pone il problema di come registrare le variazioni del valore equo delle voci … Se la valutazione è effettuata in base al valore equo, il valore equo di un’attività o di una passività può aver subito una variazione e degli utili possono essere stati inclusi nel conto profitti e perdite anche se non sono stati ancora “realizzati”, nel senso che può benissimo non aver avuto luogo alcuna operazione di compravendita. Sotto il profilo prudenziale o del mantenimento del capitale, può sembrare poco prudente considerare che tali utili siano disponibili per essere distribuiti agli azionisti. In pratica, gli strumenti finanziari per i quali la presente proposta avrà conseguenze più dirette saranno le attività e le passività finanziarie detenute a fini di negoziazione, quali obbligazioni contrattuali e titoli che vengono frequentemente acquistati e venduti allo scopo di ricavare un profitto dalle fluttuazioni dei prezzi a breve termine (che si tratti di strumenti negoziati in borsa o di strumenti OTC). Poiché questi strumenti vengono acquistati e venduti più volte nel breve periodo, i profitti e le perdite sono effettivamente “realizzati”; di conseguenza, viene più largamente accettato che in tal caso le variazioni del valore equo debbano essere contabilizzate nel conto profitti e perdite come le altre operazioni di negoziazione…”.

Al di là delle evoluzioni cui si è andati incontro (la rilevanza reddituale delle variazioni di far value non si limita ai soli strumenti finanziari detenuti per la negoziazione), il passo è stato riportato per cominciare a dare un’idea di uno dei pilastri della filosofia che ispira gli Ias/Ifrs: la visione di ciò che è “utile realizzato” e ciò che non lo è. A ben vedere, la differenza fra principi contabili nazionali, o meglio, fra norme civilistiche italiane e standard internazionali trae origine proprio da questo punto. Perché a monte vi è una concezione differente della performance da mettere in evidenza con il bilancio (performance cui le variazioni di fair value che fanno reddito sono strumentali). Un bilancio figlio di un’impostazione contabile che - buoni propositi contenuti nel Framework a parte - poca attenzione sembra avere - se si utilizzano come parametri quelli della “scuola italiana” - per la tutela del capitale aziendale.
Nel prossimo intervento discuteremo proprio di questo.


Fonte: Agenzia Entrate

0 commenti:

 
Top