Con la sentenza n. 112/20/12, del 14 maggio scorso, la Commissione tributaria provinciale di Firenze ha respinto il ricorso di un contribuente avverso avvisi per più di 400mila euro, tra imposte e sanzioni, condannandolo anche alle spese di giudizio per 10mila euro.
Dalle informazioni relative agli atti di compravendita registrati nel corso del 2006 risultavano, infatti, effettuate da una società immobiliare cessioni di immobili ad uso residenziale.
L’ufficio, dopo un’analisi specifica delle cessioni realizzate, aveva dunque verificato la sostanziale omissione di ricavi non dichiarati. Dalla documentazione in possesso dello stesso ufficio era, quindi, stato definito l’effettivo valore di cessione di tre unità immobiliari delle nove già identificate.

Nello specifico, sulla base dei preliminari di compravendita e del valore di perizia collegato alla relazione di stima predisposta dagli Istituti di credito in conseguenza della richiesta di mutuo, i corrispettivi risultavano di valore superiore rispetto al prezzo dichiarato in atto.
L’ufficio, allora, al fine di dare una corretta valorizzazione delle restanti sei unità immobiliari facenti parte dello stesso complesso residenziale e aventi, quindi, caratteristiche strutturali omogenee, aveva proceduto al raffronto dei valori in precedenza determinati con quelli dichiarati, da cui era emersa una sostanziale differenza (411.620,72 euro).
La differenza principale si riferiva, peraltro, alla cessione avvenuta a favore del figlio del rappresentante legale della società.
Per dare maggiore specificità alle ricostruzioni predisposte venivano, poi, effettuate ulteriori indagini finanziarie, che, oltre ad acquisire i fascicoli di mutuo degli acquirenti, interessavano anche i conti correnti personali, intestati e/o cointestati a entrambi i soci della società e ai rispettivi coniugi.
Nel dettaglio venivano richieste informazioni circa una serie di movimentazioni bancarie, intervenute nell’anno 2006 sui conti intestati ai soci, molte delle quali direttamente collegate all’attività d’impresa.
Le somme erano, per lo più, trasferite dalla società ai conti correnti personali cointestati dei due soci, a titolo di rimborso finanziamento e/o restituzione conferimento e si riferivano a somme entrate in azienda negli anni 2003, 2004, 2005 e in parte nel 2006.

Se si considera che le trattative per le cessioni immobiliari erano iniziate già nel corso degli anni precedenti a quello sottoposto a controllo, era verosimile che le somme di volta in volta versate dai soci all’interno della società a titolo di finanziamento personale, avessero la propria fonte in acconti pagati dai futuri acquirenti degli immobili, come di fatto poi dimostrato dalle indagini.
Se, poi, si confrontava il totale delle somme rimborsate ai soci, pari a 387mila euro con il totale dei maggiori redditi ricostruiti (571.621 euro), escludendo dagli stessi il maggior valore determinato per la cessione avvenuta a favore del figlio del rappresentante legale, pari a 182.554 euro (571.621 – 182.554 = 389.067) si notava addirittura una sostanziale coincidenza.
Dall’analisi, infine, dei bilanci depositati dalla società, si notava come il legale rappresentante, nonché liquidatore e socio al 97,65%, aveva provveduto a ritrasferire sui propri conti personali, poco prima della messa in liquidazione del complesso aziendale, delle somme in precedenza versate nelle casse della società.

A seguito dunque dell’accertamento per le maggiori imposte già dovute dalla società a ristretta base familiare (due soci, marito e moglie), erano stati emessi anche gli accertamenti nei confronti dei soci per la distribuzione occulta degli utili.
Tali somme risultavano, infatti, derivare da utili conseguiti dalla società in evasione di imposta e, per il socio, costituivano comunque redditi di capitale che il contribuente non aveva fatto concorrere alla determinazione del proprio reddito complessivo.

Per quanto riguarda, infatti, la presunzione di distribuzione di utili non contabilizzati dalla società, come ribadito dalla Corte suprema con sentenza 18640/2008, “nell’ipotesi di società di capitali a ristretta base sociale deve ritenersi legittima la presunzione di distribuzione ai soci degli utili extracontabili, non ricorrendo il divieto di presunzione di secondo grado in quanto il fatto noto non è costituito dalla sussistenza di maggiori redditi induttivamente accertati nei confronti della società, ma dalla ristrettezza della base sociale e dal vincolo di solidarietà e di reciproco controllo dei soci che, in tal caso, normalmente caratterizza la gestione sociale”.
La correttezza logico giuridica di tale criterio d'imputazione ai soci degli utili extracontabili è stata, del resto, ripetutamente riconosciuta dalla giurisprudenza di legittimità (cfr Cassazione nn. 6197/2007, 6780/2003, 7564/2003 e 16885/2003), sulla considerazione della "complicità" che normalmente avvince i membri di una ristretta compagine sociale.
Pertanto, una volta accertato il conseguimento di redditi occulti da parte della società, conseguono sia la presunzione di distribuzione degli utili ai soci, con relativa tassazione nel reddito complessivo, sia l'accertamento delle maggiori ritenute e delle relative sanzioni in capo alla società.

A fronte di tutto ciò il contribuente presentava ricorso, sollevando diverse eccezioni di diritto.
Tra le tante, in particolare, contestava il fatto che l’avviso di accertamento fosse stato emesso nei confronti dei soci e del liquidatore, pur essendo stata la società nel frattempo cancellata dal registro delle imprese e non potendo dunque tali soggetti essere considerati responsabili per le obbligazioni relative a rapporti fiscali propri di una società di capitali cancellata.
Ma, a ben vedere, come sottolineato dall’ufficio nella propria costituzione in giudizio, il problema non era sapere se la società era stata o meno cancellata, ma se lo poteva essere. Infatti, se fosse sufficiente cancellare una società per non rispondere più delle relative obbligazioni, costituirebbe un chiaro abuso del sistema.

A questo punto allora sarà una questione di prova, laddove l’onere della prova non può che gravare sulla parte causa dell’illecito (in questo caso la cancellazione della società) e quindi sul contribuente (soci e liquidatore).
Una volta rilevato che la cancellazione della società non poteva avvenire, per quanto riguarda i soci, essi devono quanto meno dimostrare:
•             la loro totale estraneità alla illecita cancellazione
•             la mancata assegnazione di risorse della società.

Secondo il disposto dell'articolo 2280 del codice civile (statuito per le società di persone, ma applicabile anche alle società di capitali per il richiamo operato dall'articolo 2452 del codice civile), infatti, “i liquidatori non possono ripartire tra i soci, neppure parzialmente, i beni sociali, finché non siano pagati i creditori della società o non siano accantonate le somme necessarie per pagarli”.
Poiché, dunque, in base ai principi generali del nostro ordinamento giuridico, quando l'autore del fatto ha violato una specifica norma giuridica di condotta, la prova di tale violazione è prova sufficiente della colpa, all'Amministrazione Finanziaria sarà sufficiente accertare l'infrazione commessa (la cancellazione della società dal registro delle imprese) perché possa agire per il recupero di imposta. Sia verso i soci per il debito sociale e sia verso il liquidatore per la sua specifica violazione e responsabilità.
Ma le due obbligazioni sono e restano distinte.

Come, infatti, sostenuto dalla Corte suprema “...il rapporto giuridico in forza del quale il liquidatore è tenuto a rispondere in proprio delle imposte non pagate non è fondato sul dolo o sulla colpa, ma ha la sua fonte in un'obbligazione ex lege, del quale questi è responsabile secondo le norme comuni degli artt. 1176 e 1218 del codice civile, in relazione alla distrazione di attività del patrimonio sociale a fini diversi dal pagamento delle imposte dovute” (Cassazione, sentenza 4765/1989).
Un’obbligazione, il cui adempimento può essere preteso nell'ordinario termine decennale di prescrizione, essendo la stessa riconducibile alle norme degli articoli 1176 e 1218 del codice civile e non qualificabile come coobbligazione nei debiti tributari.

Ai soci non sarà del resto sufficiente dire di non aver ricevuto nulla dalla liquidazione della società, potendo l’Amministrazione far valere la prova critica dell’id quod plerumque accidit.
Starà, poi, al giudice valutare quale sia l’ipotesi più “verosimile”, motivando però in ordine a tale giudizio.
A tal proposito, la Ctp di Firenze è stata molto chiara e, dopo aver evidenziato che “la stessa Corte di Cassazione ha affermato che l’atto formale di cancellazione di una società commerciale dal relativo registro non ne opera l’estinzione ove non siano ancora esauriti tutti i rapporti giuridici facenti capo alla società stessa e da questa intrattenuti con i terzi”, ha ancora affermato che “se nel corso delle operazioni di liquidazione sia stata omessa la chiusura di un determinato rapporto, il creditore (e quindi anche l’Amministrazione Finanziaria), oltre che agire in via sussidiaria a termini dell’art. 2456 c.c. contro i soci pro quota, può convenire in giudizio la società cancellata in persona del suo ex liquidatore …”.

I giudici di primo grado, infine, concludono sottolineando come “la pretesa tributaria può essere del resto comunque avanzata anche verso i soci (per l’intero debito, laddove sussistano indizi di distribuzione occulta e in ogni caso per la quota del valore dei beni assegnati o delle somme riscosse in base al bilancio finale di liquidazione), dato che quella medesima presunzione, che consente in caso di Srl a ristretta base azionaria familiare di presumere la distribuzione occulta di dividendi, potrà operare anche nel caso in esame, visti gli “indizi” sussistenti e dettagliatamente evidenziati in sede di accertamento”.


Fonte: Agenzia Entrate

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