La Commissione tributaria provinciale di Firenze, con la sentenza 93/1/12 del 12 giugno, ha respinto il ricorso di un contribuente avverso un avviso di accertamento per più di 500mila euro, tra imposte e sanzioni, con condanna dello stesso anche al pagamento delle spese di giudizio.

A seguito di una segnalazione trasmessa dalla Polizia municipale del Comune di Firenze, dalla quale emergeva la propensione all’occultamento di elementi reddituali legati allo svolgimento di attività di affittacamere, l’Agenzia delle Entrate riteneva opportuno approfondire la posizione fiscale del contribuente attraverso lo strumento delle indagini finanziarie.
Alle circostanze evidenziate nella segnalazione si aggiungevano del resto anche ulteriori elementi, desunti in Anagrafe tributaria, che facevano ulteriormente dubitare della veridicità di quanto indicato dal contribuente nel corso degli anni in sede di dichiarazione.

In particolare, nonostante il contribuente risultasse fin dagli anni ’80 titolare di un’attività di affittacamere in pieno centro storico a Firenze, verosimilmente remunerativa, tenuto conto del numero dei turisti che affollano la città durante tutto l’anno, i relativi redditi di impresa dichiarati erano sempre risultati nell’ordine di poche migliaia di euro annui, quando non addirittura in perdita.
Allo stesso tempo, a fronte di un reddito complessivo in media modesto, che in alcuni periodi di imposta era risultato pressoché nullo a causa delle perdite fatte registrare dall’attività di affittacamere, il contribuente risultava aver stipulato, tra il 2004 e il 2008, numerose operazioni, sia di compravendita immobiliare che finanziarie.

L’ufficio acquisiva allora il dettaglio delle movimentazioni dei singoli conti e, ai sensi dell’articolo 32, comma 1, Dpr 600/1973, invitava il contribuente a fornire chiarimenti in merito ai dati e alle informazioni bancarie ottenute.
A seguito del contraddittorio, in presenza di operazioni non ritenute debitamente giustificate, l’ufficio notificava dunque al contribuente apposito avviso di accertamento, con il quale recuperava elementi attivi ai fini Irpef e Irap pari a 527.341 euro e una maggiore Iva per 31.096 euro.

L’avviso veniva impugnato davanti alla Commissione tributaria provinciale di Firenze.
Per quel che qui interessa, in relazione a numerose movimentazioni bancarie, il contribuente dichiarava dunque, in sede di contraddittorio, di aver erogato prestiti in danaro ad alcuni suoi conoscenti e/o ai loro amici e di averne avuto restituzione senza il pagamento di alcun interesse.

Riguardo alle modalità delle erogazioni, lo stesso sosteneva che avvenivano prevalentemente attraverso lo sconto di cambiali e, talvolta, con l’anticipo di somme a fronte della consegna di assegni post datati da parte del beneficiario del prestito.
Nel caso dello sconto di cambiali, ricevuta la richiesta di un prestito, il contribuente in primo luogo provvedeva a far sottoscrivere al richiedente una cambiale a suo favore, poi si recava in un istituto di credito dove intratteneva un conto e disponeva di un apposito castelletto salvo buon fine e si faceva scontare la cambiale; successivamente, consegnava l’importo ottenuto al richiedente la somma, con l’avvertenza che gliela restituisse prima della scadenza della cambiale.
Nell’ipotesi in cui la restituzione non avvenisse nei termini previsti, il ricorrente provvedeva a regolarizzare la posizione con la propria banca, facendo contestualmente emettere al debitore una nuova cambiale, con una nuova scadenza, da scontare, ancora una volta, presso lo stesso istituto di credito.
A tale proposito, il contribuente precisava comunque che gli oneri finanziari e gli interessi passivi delle varie operazioni erano sempre a suo carico, dato lo spirito di liberalità e di favore con cui aveva sempre condotto tutte le operazioni.

Per un numero consistente di movimenti non forniva comunque alcuna giustificazione, mentre per altre i motivi addotti non risultavano accompagnati da un sufficiente riscontro documentale.
In ordine alle uscite dai predetti conti, queste venivano ricondotte genericamente a prelievi per finanziare spese personali o lo sconto di cambiali a terzi (prestiti di denaro).
Per sua stessa ammissione, quindi, il contribuente prestava denaro, in modo non occasionale, a una generalità di persone, accomunate dalla difficoltà di ottenere un finanziamento presso i canali ufficiali, senza essere iscritto negli appositi elenchi tenuti dal ministero del Tesoro.

Tali circostanze, che potrebbero peraltro anche configurare una violazione dell’articolo 132 del decreto legislativo 385/93 per esercizio abusivo dell’attività finanziaria, da un punto di vista meramente fiscale rilevavano in particolare sotto il profilo della prova contraria che il contribuente era in grado di fornire in ordine al fatto che le movimentazioni in entrata di sconto effetti non avessero rilevanza ai fini del reddito.
La prova contraria consisteva peraltro, principalmente, in dichiarazioni dei beneficiari dei prestiti con autentica della sottoscrizione.

Il recupero dell’ufficio, alla luce di quanto sopra evidenziato, risultava dunque del tutto corretto.
Come, infatti, anche recentemente ribadito dalla Corte suprema, con la sentenza 3263/2012, “compete al contribuente dimostrare di aver tenuto conto nella dichiarazione della rilevanza fiscale dei movimenti rinvenuti nei rapporti intrattenuti con istituti di credito ovvero allegare la fattispecie di esonero da imposizione delle operazioni economiche di cui trattasi, né l'acquisizione dei dati è subordinata alla verificazione dello svolgimento di attività d'impresa”.Tutti i dati emersi dalle indagini bancarie potevano dunque anche essere considerati attinenti all’attività di impresa, sia per quanto riguarda le imposte dirette che l’Iva.

Ancora, nella stessa sentenza, con affermazioni che si attagliano perfettamente al caso in esame, il giudice sottolinea che a nulla rileva “il carattere “astratto” dei titoli di credito utilizzati per le movimentazioni bancarie contestate, laddove su tale astrattezza il contribuente aveva l'onere di fare luce, dando conto del rapporto causale che di ciascuno di essi era alla base. Neppure il richiamo alla mancanza di prova dello svolgimento di attività di impresa coglie nel segno, ove si consideri che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, ai fini dell'accertamento delle imposte sui redditi, "i dati e gli elementi risultanti dai conti correnti bancari vanno ritenuti rilevanti ai fini della ricostruzione del reddito imponibile, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, se il titolare del conto non fornisca adeguata giustificazione, a prescindere dalla prova preventiva che il contribuente eserciti una determinata attività e dalla natura lecita o illecita dell'attività stessa" (Cass. n. 10578 e n. 19692 del 2011) … E' perciò appena il caso di ricordare che, analogamente, in tema di IVA, secondo un consolidato indirizzo, "l'utilizzazione dei dati acquisiti presso le aziende di credito, ai sensi del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, comma 2, n. 2, non è subordinata alla prova che il contribuente eserciti attività d'impresa: infatti, se non viene contestata la legittimità dell'acquisizione dei dati risultanti dai conti correnti bancari, i medesimi possono essere utilizzati sia per dimostrare l'esistenza di un'eventuale attività occulta (impresa, arte o professione), sia per quantificare il reddito ricavato da tale attività, incombendo al contribuente l'onere di dimostrare che i movimenti bancari che non trovano giustificazione sulla base delle sue dichiarazioni non sono fiscalmente rilevanti …”.

Le suddette conclusioni e argomentazioni, con la sentenza sopra citata, sono state quindi condivise dalla Commissione tributaria provinciale di Firenze, la quale, dopo aver affermato che “l’onere dell’Amministrazione di provare la pretesa fiscale è soddisfatto per volontà di legge attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti bancari … Sostiene la parte che molti versamenti e prelevamenti riguardavano un’attività personale e non remunerativa di prestiti amicali. A tal fine ha prodotto le dichiarazioni di ben tredici soggetti le cui sottoscrizioni sono state autenticate”, sottolinea però che “nel processo tributario tali documenti fanno fede solo della data, dell’esistenza e della provenienza delle dichiarazioni in essi scritte, non certo dell’attendibilità delle dichiarazioni medesime, da ritenersi soggette, allo stesso modo di qualsiasi altra scrittura privata, al vaglio del giudicante che deve tenere conto di ogni elemento da cui possa desumersi la maggiore o minore veridicità delle stesse”.

In conclusione, evidenziano i giudici, “questa Commissione esclude di poter prestare fede all’asserita gratuità dei prestiti. Da un lato si devono considerare i modestissimi introiti denunciati dal contribuente nelle dichiarazioni dei redditi non solo nell’anno in esame, ma anche in quello precedente e nei successivi. In sostanza non si comprende come un soggetto che riesce a mala pena a provvedere alle più elementari esigenze personali sia poi in condizione di fare numerosi prestiti “amicali” per somme molto rilevanti. Inoltre, lo stesso numero delle persone che hanno ricevuto i prestiti deve portare a concludere che prestare denaro costituisca per il … un’attività commerciale”.L’accertamento veniva dunque confermato nella sua piena legittimità.


Fonte: Agenzia Entrate

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