Alla luce di quanto evidenziato nel precedente intervento, emergono con tutta evidenza le ragioni per cui la dottrina e la giurisprudenza abbiano innanzitutto escluso che le condotte elusive possano dare luogo a responsabilità penale ai sensi degli articoli 2 (“Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”) o 3 (“Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici”) del Dlgs 74/2000.

Nel delitto di dichiarazione fraudolenta di cui all'articolo 3, la lesione del bene giuridico tutelato, ossia l'interesse dello Stato alla corretta percezione dei tributi, è sanzionata penalmente solo se lo scopo di evadere (dolo specifico di evasione) viene perseguito tramite una falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie e attraverso l'utilizzo di mezzi fraudolenti idonei a ostacolare l'accertamento della falsità.
La fattispecie in esame è stata dunque costruita dal legislatore quale delitto a condotta vincolata che si perfeziona solo allorquando l'indicazione in dichiarazione di elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi sia preceduta da una falsa rappresentazione contabile accompagnata dall'utilizzo di mezzi fraudolenti idonei a “camuffare” la mendace annotazione. Il disvalore specifico del delitto di dichiarazione fraudolenta ex articolo 3 del Dlgs 74/2000 è, dunque, legato alla particolare insidiosità della condotta dell'autore volta a sottrarre materia imponibile attraverso la trasposizione in dichiarazione di una rappresentazione contabile non veritiera dei fatti di gestione, supportata da un impianto documentale “fraudolento” che rende più difficile l'accertamento delle falsità.

Nel delitto di “dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti” ex articolo 2, in particolare, la falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie consegue alla registrazione di fatture (o altri documenti equipollenti) ideologicamente o materialmente false. Il disvalore specifico di tale reato, manifestato dalla mancata previsione di condizioni obiettive di non punibilità di tipo quantitativo, è legato alla particolare insidiosità del mezzo fraudolento usato, la fattura (o altro documento a essa equiparato), conseguente al valore probatorio a essa normalmente riconosciuto.

Da quanto sopra, emerge che le condotte elusive non possono in alcun modo integrare le modalità tipiche di aggressione al bene giuridico, tipizzate negli articoli 2 e 3 del Dlgs 74/2000: il contribuente non rappresenta falsamente nelle scritture contabili obbligatorie fatti di gestione non realizzati, né utilizza mezzi fraudolenti - meno che mai fatture false - idonei a ostacolare l'accertamento di una falsità contabile. Il contribuente che pone in essere una operazione elusiva, registra fedelmente e correttamente i fatti di gestione attraverso i quali l'elusione si realizza. In sintesi, il contribuente indica in dichiarazione tutti gli elementi positivi e passivi che sono effettivamente ricollegati agli atti, fatti o negozi giuridici da lui compiuti.

Per le ragioni appena descritte, l'esame della possibile rilevanza delle condotte elusive è stato pertanto condotto soprattutto con riferimento alla fattispecie delittuosa “residuale” contemplata dall'articolo 4 (“dichiarazione infedele”) del decreto legislativo n.74/2000.

Le critiche alla possibilità di sanzionare penalmente le condotte elusive ai sensi dell'articolo 4 del Dlgs 74/2000
Avverso la possibilità che una pratica elusiva possa integrare l'ipotesi delittuosa di cui all'articolo 4 del Dlgs 74/2000, sono state sollevate diverse obiezioni. In particolare, si è dubitato della possibilità di ritenere integrati gli elementi “normativi” utilizzati dal legislatore per descrivere tale delitto.

In primo luogo, secondo alcuni autori sarebbe impossibile ricondurre il concetto di imposta elusa nella definizione normativa di “imposta evasa”, indicata nella lettera f) dell'articolo 1 del decreto. Si è sostenuto, infatti, che per potersi parlare di evasione “è necessario prendere in considerazione l'atto, fatto o negozio compiuto, il regime fiscale ad esso ricollegato, l'imposta effettivamente dovuta e quella indicata in dichiarazione (se vi è stata) e accertare una differenza che evidenzi una volontà lesiva della pretesa tributaria dello Stato”. Nell'elusione, invece, il contribuente non realizza alcun comportamento idoneo a sottrarlo a imposizione e si finirebbe per sanzionare penalmente un soggetto “per non aver compiuto un'operazione diversa che, se compiuta, avrebbe assicurato allo Stato un maggior introito”.

In secondo luogo, è stato sostenuto che il “fine di aggirare obblighi o divieti previsti dall'ordinamento tributario e di conseguire riduzioni o rimborsi altrimenti non conseguibili” richiesto dall'articolo 37-bis, sarebbe incompatibile con il dolo specifico di evasione. A sostegno di ciò, si è affermato che, poiché l'evasione si realizza con la violazione diretta di norme dell'ordinamento tributario, mentre l'abuso di diritto (e l'elusione che ne costituisce un specie) si contraddistingue per l'uso distorto di strumenti in sé leciti, chi vuole realizzare una condotta elusiva, ossia aggirare una disposizione tributaria, per ciò solo non vuole realizzare un'evasione.

In terzo luogo, si è osservato che, affinché si perfezioni la fattispecie di cui all'articolo 4 del Dlgs 74/2000, è necessario che il contribuente indichi in dichiarazione “elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo” o “elementi passivi fittizi”. La lesione del bene giuridico che la norma intende tutelare è penalmente sanzionata solo in presenza di un'artificiosa - fittizia - rappresentazione di elementi reddituali negativi o attraverso una “sottomanifestazione” dell'attivo. Nell'elusione, invece, non solo non potrebbe realizzarsi quello “scarto tra il reale e la rappresentazione dello stesso” che il concetto stesso di “fittizietà” pare esigere, ma anche la “sottomanifestazione” dell'attivo conseguirebbe esclusivamente a una mera differente qualificazione giuridica del fatto posto in essere dal contribuente.

L'argomento, tuttavia, che con maggiore forza viene invocato per negare ogni rilevanza penale alle condotte elusive è la presunta incompatibilità di tale rilevanza con il principio di determinatezza (o tassatività) delle norme penali.
Si è sostenuta, in definitiva, l'inidoneità delle categorie giuridiche dell'abuso di diritto e dell'elusione a circoscrivere in maniera puntuale, nel rispetto dunque del principio di tassatività di cui all'articolo 25 della Costituzione, le modalità di aggressione al bene giuridico ritenute dal legislatore meritevoli di sanzione penale.
Sotto tale profilo e con riferimento alle condotte riconducibili alla “speciale” clausola semi-generale di cui all'articolo 37-bis del Dpr 600/1973, si è osservato che, stante l'assenza di determinatezza della fattispecie ivi descritta, la disposizione in esame non solo non potrebbe dare luogo a responsabilità penale ma, poiché il principio di legalità opera anche con riferimento alle sanzioni amministrative, neppure giustificare l'irrogazione di queste ultime.
Tale disposizione, come più in generale la clausola antiabuso, non avrebbe infatti natura sanzionatoria ma meramente “ripristinatoria”, come sarebbe dimostrato dal fatto che l'Amministrazione finanziaria, qualora contesti l'elusività di un determinata operazione, è obbligata ad applicare l'imposta dovuta sulla base della disposizioni eluse “al netto delle imposte dovute per effetto del comportamento inopponibile all'amministrazione”.

Il rischio di una violazione di quel principio di tassatività cui il legislatore deve attenersi nella descrizione delle modalità di aggressione ai beni giuridici meritevoli di sanzione penale, tuttavia, è stato paventato con maggiore forza in relazione al principio generale antielusivo di elaborazione giurisprudenziale.
Si è infatti già illustrato come la dottrina, nell'evidenziare il rapporto di specialità intercorrente tra il principio antielusivo di matrice giurisprudenziale e la clausola semi-generale di cui all'articolo 37-bis, abbia altresì evidenziato che mentre la disciplina prevista da quest’ultimo può avere a oggetto solo le operazioni previste nel terzo comma della stessa disposizione, il generale principio anti-abuso è suscettibile di essere applicato a qualunque operazione realizzata in difetto di ragioni economicamente apprezzabili diverse dal risparmio fiscale. Si è pertanto sostenuto che, se l'abuso del diritto è caratterizzato, da un lato, dalla liceità dei comportamenti realizzati e, da un altro, dalla sua ontologica “atipicità”, da intendersi come non riconducibilità a precise fattispecie legali, deve escludersi che le condotte a esso riconducibili possano dare luogo a responsabilità penale. Tale assenza di tipicità sarebbe stata del resto espressamente affermata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia della Comunità europea che, in più occasioni, ha escluso, proprio per assenza di determinatezza, l'applicabilità di sanzioni, anche solo di natura amministrativa, nei confronti dell'autore di condotte abusive.

L'impossibilità, per le ragioni anzidette, di ricondurre l'abuso di diritto e l'elusione fiscale nell'ambito di applicazione di una delle varie fattispecie delittuose di cui al Capo I del decreto legislativo 74/2000, ha pertanto condotto parte della dottrina a ritenere del tutto priva di rilevanza, in materia penale, non solo l'abuso del diritto, ma anche l'elusione fiscale.
Tale irrilevanza troverebbe conferma nella “Relazione ministeriale al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74”, laddove viene precisato che: “la disposizione di cui all'articolo 16 è unicamente di favore per il contribuente, e non può in alcun modo esser letta, per così dire, "a rovescio", ossia come diretta a sancire la rilevanza penalistica delle fattispecie lato sensu elusive non rimesse alla preventiva valutazione dell'organo consultivo”.
La previsione di cui all'articolo 16 del Dlgs 74/2000 (“Non dà luogo a fatto punibile a norma del presente decreto la condotta di chi, avvalendosi della procedura stabilita dall'articolo 21, commi 9 e 10, della legge 30 dicembre 1991, n. 413, si e' uniformato ai pareri del Ministero delle finanze o del Comitato consultivo per l'applicazione delle norme antielusive previsti dalle medesime disposizioni, ovvero ha compiuto le operazioni esposte nell'istanza sulla quale si è formato il silenzio-assenso”), dunque, non sarebbe stata introdotta per equiparare surrettiziamente, sul piano penale, l'elusione e l'evasione fiscale, ma, invece, al fine esclusivo di ribadire la regola generale dell'efficacia scusante dell'errore incolpevole generato da un legittimo affidamento in un parere qualificato (reso, nel caso in esame, dall'Amministrazione finanziaria).


Fonte: Agenzia Entrate

0 commenti:

 
Top