L’assenza dell’effettivo movimento di denaro – soprattutto quando la somma in questione è di ingente entità – dimostrata attraverso presunzioni semplici, ma gravi, precise e concordanti, può legittimare l’accertamento induttivo per falsa fatturazione, ai sensi dell’articolo 39 del Dpr 600/1973.
Questo il principio contenuto nell’ordinanza 15583/2011, nella quale la Cassazione ha ritenuto valido l’atto impositivo tributario fondato su elementi probatori valutati – dal giudice di merito, sia singolarmente che complessivamente – fortemente indiziari.

Il fatto
Un contribuente impugna in Cassazione la sentenza d’appello che, in accoglimento del gravame proposto dall’Amministrazione finanziaria, aveva confermato l’avviso di accertamento per Irpef e Ilor (anno 1991).

Secondo i giudici di secondo grado, l’addebito di falsa fatturazione – posto a fondamento dell’atto contestato – trovava giustificazione sia in anomali pagamenti d’ingenti somme in contanti per una presunta fornitura di beni (fatta dal contribuente a una società) sia in fittizie forniture degli stessi beni fatte al contribuente da un’altra società, pur in assenza presso quest’ultima, del bene stesso.

Tra i motivi di ricorso, il contribuente lamenta la violazione di legge e il vizio di motivazione, in quanto i giudici d’appello avrebbero dato valore – come indicatore di falsa fatturazione – al solo elemento relativo ai pagamenti fatti con denaro contante e di aver legittimato l’accertamento induttivo, pur in presenza di contabilità regolare e nonostante gli oneri probatori fossero, per legge, a carico dell’Amministrazione resistente.

Il motivo è infondato.
Al riguardo, la Cassazione ricorda che, in base all’articolo 39, comma 1, del Dpr 600/1973, l’inesistenza di passività può essere desunta anche sulla base di presunzioni semplici (purché gravi, precise e concordanti), senza necessità che l’ufficio fornisca prove certe.
In questi casi, secondo l’insegnamento della Corte suprema, sarà il giudice di merito, investito della controversia sulla legittimità e fondatezza dell’atto impositivo, a dover valutare, con motivazione logica e coerente – impugnabile in Cassazione non per il merito, ma solo per inadeguatezza o incongruità logica dei motivi che la sorreggono – gli elementi presuntivi forniti dall’Amministrazione finanziaria e “…solo in un secondo momento, qualora ritenga tali elementi dotati dei caratteri di gravità, precisione e concordanza, deve dare ingresso alla valutazione della prova contraria offerta dal contribuente, che ne è onerato…”.

Nel merito, i giudici di piazza Cavour ritengono che “…si possa validamente dimostrare l’assenza dell’effettivo versamento della somma in contanti attraverso il collegamento tra presunzioni concordanti, quali l’assoluta mancanza di plausibilità dell’allegazione, in quanto riferita ad un importo assoggettato per la sua ingente entità ai divieti della normativa antiriciclaggio e alla conseguente necessità di una traccia documentale dell’effettivo versamento…”.

Nel caso di specie, l’ingente importo del pagamento in contanti (circa mezzo miliardo di vecchie lire), non può assolutamente considerarsi come un elemento neutro – alla luce delle pesantissime sanzioni previste per l’inosservanza delle disposizioni dettate per limitare l’uso del contante, al fine di contrastare il fenomeno del riciclaggio – con la conseguenza della legittimità del ricorso alle presunzioni contenute nel citato articolo 39 e al relativo accertamento.
Senza dimenticare, continua ancora la Cassazione, che le fatture di vendita emesse dall’altra società alla ditta ricorrente – in assenza della disponibilità del bene compravenduto, accertata dagli organi verificatori – costituisce, per i giudici d’appello, conferma della veridicità del quadro indiziario prospettato dall’Erario, stante l’impossibilità materiale dell’asserito acquisto.

Ciò premesso, chiosa da ultimo la Cassazione, “…l’atto di rettifica, qualora l’ufficio abbia sufficientemente motivato,…, è assistito da presunzione di legittimità circa l’operato degli accertatori, nel senso che null’altro l’ufficio è tenuto a provare, se non quanto emerge dal procedimento deduttivo fondato sulle risultanze esposte, mentre grava sul contribuente l’onere di dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate, senza che sia sufficiente invocare l’apparente regolarità delle annotazioni contabili, perché proprio una tale condotta è di regola alla base di documenti emessi per operazioni inesistenti o di valore di eccedente quello effettivo (Sez. 5, Sentenza cass. n. 951/2009)”.

Considerazioni finali
La sentenza in commento si allinea a un filone interpretativo relativo all’accertamento induttivo – disciplinato dall’articolo 39, comma 1, lettera d), ultimo periodo, del Dpr 600/1973, secondo cui, l’Amministrazione finanziaria può, relativamente all’accertamento dell’esistenza di attività non dichiarate o dell’inesistenza di passività dichiarate, avvalersi di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti – già fatto proprio dalla giurisprudenza di legittimità (cfr, Cassazione, sentenze n. 9784/2010, 6849/2009 e 15395/2008).

Per quanto attiene alle presunzioni – da intendersi, ai sensi dell’articolo 2727 del codice civile, come le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignoto – queste devono possedere i requisiti di gravità, precisione e concordanza di cui all’articolo 2729 del codice civile (“Le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti”).
Pertanto, l’accertamento induttivo può fondarsi su presunzioni caratterizzate dalla “gravità”, intesa come ragionevole certezza dei fatti presunti (anche in termini probabilistici), “precisione”, ossia fondatezza e determinatezza dei fatti noti posti a base del ragionamento, infine “concordanza”, ovvero convergenza di più fatti noti verso la dimostrazione del fatto ignoto.
Trattasi, ovviamente, di presunzioni legali relative (iuris tantum), che ammettono la prova contraria, posta a carico dei soggetti accertati (principio dell’inversione dell’onere probatorio), che, nella fattispecie in esame, non è stata prodotta.


Fonte: Agenzia Entrate

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