Il provvedimento di sequestro preventivo dei beni della moglie del contribuente, condannato per affari illeciti (dichiarazione fraudolenta e fatture per operazioni inesistenti), è legittimo qualora il reddito dichiarato dallo stesso e dal coniuge sia notevolmente inferiore agli investimenti effettuati.
Lo ha stabilito la Corte di cassazione con la sentenza 27458 del 13 luglio.

I fatti
Nell’ambito del procedimento penale a carico del signor X, indagato in ordine ai reati di usura aggravata, associazione per delinquere finalizzata all’abusiva attività finanziaria e di dichiarazione fraudolenta, mediante uso di fatture per operazioni inesistenti, nel 2007, il Gip del Tribunale di Trani disponeva il sequestro preventivo (articolo 321, comma 2, cpp) di beni immobili acquistati dall’indagato tra il 2002 e il 2006, e in parte intestati alla moglie.
Il Gip ha ritenuto, sulla base degli accertamenti espletati dalla Guardia di finanza, che tali investimenti (per oltre due milioni di euro) erano incompatibili con il modesto reddito familiare dell’indagato e che, quindi, le corrispondenti risorse finanziarie erano certamente di provenienza illecita.
Il signor X, dunque, si è visto rigettare la prima istanza di dissequestro – rigetto confermato in appello (ex articolo 322-bis cpp) – con ordinanza del Tribunale di Bari. Stesso epilogo ha ottenuto una successiva istanza, analoga alla prima.

Ma il provvedimento non ha avuto la stessa conferma dalla Cassazione che ha annullato, con rinvio, la decisione d’appello per omessa valutazione degli elementi di fatto dedotti circa l’asserita provenienza lecita delle risorse finanziarie utilizzate per gli investimenti immobiliari.

E’ intervenuto, quindi, il Tribunale di Bari adottando due ordinanze. Con la prima, interlocutoria, ha affermato la propria competenza a decidere, nonostante l’intervenuta operatività – medio tempore – di altro ufficio giudiziario (al momento della presentazione del secondo appello, infatti, era stata istituita la nuova provincia Bat e il Tribunale di Trani sarebbe stato operativo a partire dal 6 novembre 2009). Con la successiva, decidendo in sede di rinvio, ha confermato il sequestro disposto dal Gip di Trani.

Il Signor X non si è dato per vinto e ha impugnato nuovamente il provvedimento con il quale veniva confermata la misura cautelare.

Osservazioni
Due i punti rilevanti della pronuncia. Il primo, di natura processuale, riguarda l’irretrattabilità del cosiddetto foro commissorio stabilita dall’articolo 627 cpp.
Tale norma prevede che, nel giudizio di rinvio, a seguito di pronuncia di legittimità, non è ammessa discussione sulla competenza attribuita con la sentenza di annullamento pronunciata dalla Corte di cassazione. Si tratta di un “principio di ordine generale e di carattere assoluto, la cui unica eccezione è quella prevista dall'art. 25 stesso codice per il caso di sopravvenienza di fatti nuovi che comportino una diversa definizione giuridica da cui derivi la modificazione della giurisdizione o la competenza di un giudice superiore” (Cassazione, 27458/2011).

Di conseguenza, quando con propria pronuncia la Corte di cassazione individua correttamente il giudice competente a decidere – in sede di rinvio – sull’incidente cautelare reale, tale competenza non può subire modificazione una volta che il giudizio di rinvio è stato ritualmente incardinato.
Nemmeno per effetto dell’istituzione di un nuovo capoluogo di provincia e della conseguente operatività, per la cognizione della materia specifica, del Tribunale di tale capoluogo. Ciò in forza del principio della perpetuatio iurisdictionis e della irretroattività della legge processuale.

Il secondo punto rilevante della sentenza 27458 attiene, invece, all’esame dei fatti da parte della Corte.
Nonostante tra i motivi di ricorso vi sia stata l’asserita violazione dell’articolo 627, comma 3, cpp (e cioè a parere del signor X, la sentenza del Tribunale doveva essere cassata perché il giudice di rinvio aveva violato il giudicato cautelare, non essendosi uniformato alla sentenza della Cassazione per ogni questione di diritto con essa decisa), la Corte ha ritenuto che tale motivo di impugnazione si sia risolto nella sostanziale denuncia di un presunto vizio di motivazione dell’ordinanza.
Vizio che non può essere sollevato innanzi alla Corte suprema, “dovendo il sindacato di legittimità essere circoscritto, secondo l’espressa previsione dell’art. 325 cod. proc. pen., alla sola violazione di legge”.

In particolare, la Cassazione ha affermato che l’ordinanza di conferma della misura cautelare, nell’uniformarsi alla sentenza di annullamento pronunciata dalla stessa Corte, ha preso in considerazione gli elementi di fatto dedotti dalla difesa, e, dopo averli valutati nell’ambito delle complessive emergenze procedimentali, li ha ritenuti inidonei, (perché scarsamente affidabili) a giustificare la provenienza lecita degli investimenti immobiliari.
Investimenti che, piuttosto, considerata l’esigua entità del reddito familiare lecito dell’indagato, risultavano certamente riconducibili a risorse finanziarie di provenienza illecita (attività di usura, assistita da un quadro di gravità indiziaria).

Inoltre, proprio la valutazione in sede di rinvio delle risorse finanziarie del Signor X ha consentito di superare anche l’asserita violazione del giudicato cautelare, con riferimento al provvedimento con il quale il Gip di Trani aveva revocato il sequestro delle quote della società utilizzata dall’indagato quale strumento di copertura delle attività illecite.
E ciò a prescindere dal nesso tra beni sequestrati o confiscati e reato commesso.

In generale, infatti, il legislatore, nell’individuare i reati dalla cui condanna discende la confiscabilità dei beni (articolo 12-sexies, commi primo e secondo, Dl 306/1992), non ha presupposto che gli stessi beni derivino dall’episodio criminoso per cui è intervenuta la condanna, ma ha correlato la confisca alla sola condanna del soggetto che ne ha disponibilità.
E il principio trova applicazione per i reati tributari disciplinati dal Dlgs 74/2000, rispetto ai quali l’articolo 1, comma 143, legge 244/2007, ha previsto l’estensione della confisca per equivalente e del sequestro in via preventiva.
Con una particolarità. Anche per i reati tributari, i beni sequestrati o confiscati non devono derivare dal fatto criminoso commesso, ma è sufficiente, per disporre la misura cautelare reale, la sproporzione tra gli “averi” e il tenore di vita dell’imprenditore e la sua dichiarazione.

A tal proposito, “il giudice … non deve ricercare alcun nesso di derivazione tra i beni confiscabili e il reato per cui ha pronunziato condanna e nemmeno tra questi stessi beni e l’attività criminosa del condannato, dovendo la confisca essere sempre ordinata quando sia provata l’esistenza di una sproporzione tra il valore economico dei beni di cui il condannato ha la disponibilità e il reddito da lui dichiarato o i proventi della sua attività economica, e non risulti una giustificazione credibile circa la provenienza delle cose …” (Cassazione, 25894/2011).
Al fine della valutazione di tale sproporzione, inoltre, i termini di raffronto dello squilibrio devono essere accertati attraverso una ricostruzione storica della situazione dei redditi e delle attività economiche del condannato al momento dei singoli acquisti (Cassazione, 44940/2008 e 21357/2008) e non al momento in cui viene disposta la misura cautelare reale rispetto a tutti i beni presenti.


Fonte: Agenzia Entrate

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