In tema di “motivazione degli avvisi di accertamento”, è legittimo il comportamento dell’Agenzia delle Entrate che si limita a richiamare gli elementi risultanti dai verbali della Guardia di finanza precedentemente notificati al contribuente. In tali casi, infatti, è da escludere il vizio di motivazione dovuto alla mancanza di un’autonoma valutazione delle risultanze del verbale, in quanto è da ritenere che l’ufficio ne abbia semplicemente condiviso le conclusioni, realizzando così un’economia di scrittura che, in una visione sostanzialistica del rapporto Fisco-contribuente, non pregiudica il diritto al contraddittorio (espressione del più generale diritto di difesa) di quest’ultimo, trattandosi di elementi allo stesso già noti.
È questo il principio di diritto ribadito dalla sentenza n. 23532 del 5 novembre 2014, con cui la Cassazione conferma la necessità di prendere le distanze da un’interpretazione puramente formalistica dell’obbligo di motivazione degli atti posto a carico dell’Amministrazione finanziaria.
La pronuncia si segnala anche per alcune interessanti puntualizzazioni in tema di efficacia del giudicato esterno nella materia tributaria e in merito alle condizioni e ai limiti di esperibilità nel processo tributario della consulenza tecnica d’ufficio.

La vicenda processuale
La Ctr Veneto rigettava l’appello di un contribuente, confermando la legittimità di due avvisi di accertamento relativi agli anni 2000 e 2001, con cui era stata recuperata una maggiore Iva in relazione a un’attività di compravendita e intermediazione commerciale di autovetture per cui il contribuente aveva omesso ogni adempimento, ovvero la fatturazione, la tenuta delle scritture contabili e la presentazione della dichiarazione annuale.
Secondo la Ctr, non potevano valere a favore del contribuente i giudicati di merito formatisi in altri giudizi tra le stesse parti, ma relativi a diverse annualità. Nel merito, i giudici di appello ritenevano assolto l’onere probatorio da parte dell’ufficio che aveva dimostrato l’esercizio dell’attività di compravendita di autovetture sia in base alle scritture contabili di soggetti terzi che avevano intrattenuto rapporti con il contribuente sia alla luce di elementi ricavati dal connesso procedimento penale.

Con il successivo ricorso per cassazione, il contribuente denunciava in via preliminare la nullità della sentenza impugnata perché contraria al sopravvenuto giudicato esterno. Secondo il ricorrente, infatti, le sentenze passate in giudicato, oltre ad annullare gli impugnati avvisi di accertamento, avevano accertato anche l’infondatezza del comune processo verbale di constatazione con effetti anche nel giudizio in corso, in base al disposto della richiamata sentenza della Cassazione 3116/2006.
Con altro motivo veniva denunciata la mancanza o insufficienza di motivazione in ordine alla questione della nullità degli avvisi di accertamento in quanto privi di un’autonoma e critica valutazione delle risultanze del presupposto processo verbale di constatazione.
La sentenza d’appello viene denunciata anche per vizio di motivazione in ordine al rigetto della richiesta di ammissione di Ctu.
La Cassazione, con la pronuncia in commento, ha rigettato tutti i motivi di ricorso presentati dal contribuente, condannato anche alla refusione delle spese di lite.

L’eccezione relativa all’efficacia del giudicato esterno
L’eccezione relativa all’estensione del giudicato sopravvenuto è stata ritenuta infondata in quanto i vari giudizi erano relativi a diversi provvedimenti impositivi emessi in relazione a differenti periodi di imposta.
In ambito tributario, la potenziale capacità espansiva del giudicato va conciliata con il principio di autonomia dell’obbligazione tributaria con riferimento a ogni periodo d’imposta.
Nella sentenza a sezioni unite n. 13916/2006, i giudici di legittimità hanno precisato che la formulazione del citato articolo 7 del Tuir, pur riguardando le sole imposte sui redditi, rappresenti l’ostacolo maggiore al riconoscimento dell’“ultrattività del giudicato”, sebbene tale norma “non vale ad escludere, e ciò proprio per la ‘periodicità’ di alcuni tributi, che possano esistere elementi rilevanti ai fini della determinazione del dovuto che siano comuni a più periodi d’imposta…”.

La Corte, dunque, ammette deroghe al divieto di rilevare il giudicato esterno formatosi su altro periodo d’imposta per quanto riguarda le statuizioni della sentenza relative a “elementi costitutivi della fattispecie a carattere (tendenzialmente) permanente”. Nessuna deroga è invece consentita in relazione “a quei fatti che non abbiano caratteristica di durata e che comunque siano variabili da periodo a periodo”.
Tali condizioni si realizzano, ad esempio, nell’ipotesi di esenzioni o agevolazioni pluriennali (ipotesi in concreto esaminata nella sentenza delle sezioni unite; altra ipotesi tipica è quella relativa agli ammortamenti che sono componenti negativi unitari la cui deduzione è frazionata in più anni in ossequio al principio della competenza), in cui la specifica disciplina normativa assume la pluriennalità come elemento costitutivo della fattispecie, venendo a essere sostanzialmente trattati i diversi periodi di imposta “come una sorta di maxiperiodo”.

Riprendendo tali principi, la pronuncia in commento ricorda, quindi, che, solo in presenza di un medesimo fatto generatore di imposta, si determina la identità oggettiva del rapporto giuridico, dedotto negli indicati giudizi, “che consente di ravvisare la unitarietà della "causa pretendi" la quale soltanto può giustificare la esigenza di evitare contrasti in ordine a questioni giuridiche che costituiscono il necessario presupposto logico-giuridico comune alle diverse decisioni”.
Le sentenze richiamate dal ricorrente avevano statuito su aspetti differenti a quello oggetto della presente controversia alla quale avrebbe potuto estendersi il giudicato solamente ove le pronunce, oltre ad annullare gli avvisi di accertamento impugnati per vizi propri, avessero ravvisato anche vizi riferibili alla stessa attività investigativa della Guardia di finanza, costituente presupposto comune di tutti gli accertamenti, vizi tali da rendere del tutto inutilizzabili i risultati dell'indagine (cfr Cassazione 22036/2006).
Nelle sentenze richiamate “non emerge affatto che sia stata accertata, con pronuncia passata in giudicato, la illiceità dell’attività di verifica condotta dai verbalizzanti”.

Eccezione relativa al difetto di motivazione
In merito alla motivazione per relationem, la Corte precisa che deve ritenersi soddisfatto il requisito motivazionale del provvedimento impositivo anche mediante la manifestazione di volontà dell’Agenzia delle Entrate di adesione ai risultati istruttori, alle valutazioni e alle qualificazioni giuridiche contenute nel verbale di constatazione.
Tali conclusioni si basano sul principio, ormai consolidato nell’ambito della giurisprudenza di legittimità, secondo cui “In tema di atto amministrativo finale di imposizione tributaria […], la motivazione "per relationem", con rinvio alle conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di Finanza nell’esercizio dei poteri di polizia tributaria, non è illegittima, per mancanza di autonoma valutazione da parte dell’Ufficio degli elementi da quella acquisiti, significando semplicemente che l’Ufficio stesso, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio” (sul punto, Cassazione, sentenze nn. 4523/2012, 21119/2011, 8183/2011 e 6591/2008).

Sulla questione, il terzo comma dell’articolo 3 della legge 241/1990 ha istituzionalizzato la motivazione per relationem, statuendo che: “Se le ragioni della decisione risultano da altro atto dell’amministrazione richiamato dalla decisione stessa, insieme alla comunicazione di quest’ultima deve essere indicato e reso disponibile…anche l’atto cui essa si richiama”.
Detto principio generale ha trovato accoglimento nel regime introdotto dall’articolo 7, comma 1, della legge 212/2000, in base al quale “…Se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama”.
La norma in esame, quindi, ha espressamente esteso anche agli atti emessi dall’Amministrazione finanziaria la possibilità di essere motivati per relationem.
Invero, la legittimità degli atti di natura tributaria motivati con riferimento ad altri atti è stata riconosciuta da un conforme e consolidato indirizzo giurisprudenziale, sia in relazione a ipotesi anteriori all’entrata in vigore dello Statuto, sia in relazione a questioni sorte successivamente (cfr, Cassazione, sentenze nn. 18548/2010, 12837/2010, 28058/2009, 18073/2008).

La giurisprudenza successiva ha dato un’interpretazione della norma non formalistica: il rigore della norma, infatti, deve essere contemperato con quella che è la sua finalità, vale a dire la tutela del diritto al contraddittorio e del diritto di difesa del contribuente.
In particolare, la Suprema corte ha affermato che “in tema di motivazione “per relationem” degli atti di imposizione tributaria, l’art. 7, comma 1, della legge 27 luglio 2000, n. 212, nel prevedere che debba essere allegato all’atto dell’amministrazione finanziaria ogni documento richiamato nella motivazione di esso, non intende certo riferirsi ad atti di cui il contribuente abbia già integrale e legale conoscenza per effetto di precedente notificazione” (cfr Cassazione n. 18073/2008 e n. 21348/2008).
La ratio della decisione (come di quelle successive sullo stesso tema) è espressamente individuata dai giudici di legittimità nell’esigenza di prescindere da “un’interpretazione puramente formalistica” che “si porrebbe in contrasto con il criterio ermeneutico che impone di dare alle norme procedurali una lettura che, nell’interesse generale, faccia bensì salva la funzione di garanzia loro propria, limitando al massimo le cause di invalidità o d’inammissibilità chiaramente irragionevoli”.

Eccezione relativa alla mancata ammissione della consulenza tecnica d’ufficio
Per quanto concerne l’istanza di ammissione della consulenza tecnica, la Cassazione ha condiviso le conclusioni sul punto della Ctr (nel senso della non ammissibilità), specificando “che tale mezzo istruttorio non si traduce in una "relevatio ab onere probandi" e non può supplire ai fatti che le parti sono tenute ad allegare ed alle fonti di prova di quei fatti che, le stesse parti, hanno l’onere di dedurre ai fini della verifica processuale”.
La sentenza ha fatto corretta applicazione dei principi elaborati dalla giurisprudenza in merito ai limiti di ammissibilità, nel rito tributario, della consulenza tecnica d’ufficio.
Nel processo tributario, la disposizione che si occupa della consulenza tecnica d'ufficio è contenuta nell’articolo 7, comma 2, del Dlgs 546/1992, ai sensi del quale, “Le commissioni tributarie, quando occorre acquisire elementi conoscitivi di particolare complessità possono richiedere …ovvero disporre consulenza tecnica”. Per gli aspetti processuali occorre invece rifarsi, in quanto compatibili, alle disposizioni del codice di procedura civile in virtù del richiamo operato dall’articolo 1, comma 2, del Dlgs 546/1992.
La consulenza tecnica d’ufficio non è un mezzo di prova, bensì uno strumento di ausilio alla formazione del patrimonio conoscitivo su cui può basarsi la decisione del giudice.
I requisiti sostanziali per il ricorso a tale strumento sono più stringenti rispetto a quelli previsti dal codice di rito civile, il cui articolo 61, più genericamente, consente al giudice di avvalersi di uno o più consulenti, “quando è necessario”.
Tale differenza trova la sua ratio nella considerazione che il giudice tributario rispetto a quello civile presenta i caratteri del giudice chiamato a risolvere questioni rientranti in una materia specialistica. In altri termini, il giudice tributario possiede un bagaglio di conoscenze tali da dover limitare l’utilizzo della figura del consulente a casi sporadici, caratterizzati dalla risoluzione di questioni tecniche di particolare complessità. Se ne desume che, diversamente dal rito civile, proprio in virtù di tali conoscenze specialistiche, normalmente non sarebbe consentito l’impiego della consulenza tecnica neppure per esaminare registri e documenti contabili, che rappresentano una costante delle liti tributarie.
Tali considerazioni sono state avallate dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui “il livello minimo di professionalità richiesta ad un magistrato include necessariamente e precipuamente la consapevolezza della preclusione ad avvalersi dell’opera di un consulente tecnico per risolvere questioni di diritto, ancorché complesse e concernenti settori specialistici delle discipline giuridiche (Cassazione sezioni unite 11037/2008).


Fonte: Agenzia Entrate

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