La possibilità o meno di costituirsi parte civile nei confronti di un ente imputato per l’illecito amministrativo dipendente da reato ai sensi del d.lgs. 231/2001 è discussa in dottrina e nella giurisprudenza di merito. La sentenza in commento correttamente (ad avviso di chi scrive) nega tale possibilità al termine di un’esaustiva analisi del problema.
La soluzione del problema circa l’ammissibilità della costituzione di parte civile nel processo a carico degli enti ai sensi del d.lgs 231/2001 viene da taluni ricondotta all’inquadramento della natura della responsabilità dell’ente quale responsabilità propriamente penale o amministrativa. Tale dibattito però vuole forse provare troppo nella parte in cui da questa scelta di campo pretende di determinare l’incasellamento di ogni problema legato alla disciplina in commento.

Sembra più corretto invece, e la Suprema Corte segue questo orientamento, che la risposta al quesito vada ricercata “altrove”, cioè nella peculiarità dei singoli problemi posti all’interprete, ad esempio in relazione all’ammissibilità o meno della costituzione di parte civile.

Abbandonata una sterile indagine ontologica, il punto di partenza per affrontare il tema in oggetto è rappresentato dall’art. 34 del decreto, a norma del quale per il procedimento relativo agli illeciti amministrativi dipendenti da reato si osservano le disposizioni del codice di procedura penale, e all’ente (art. 35) si applicano, laddove compatibili, le disposizioni processuali relative all’imputato.

Astrattamente dunque anche le disposizioni processuali relative alla legittimazione all’azione civile nel processo penale potrebbero trovare ingresso nel procedimento a carico dell’ente. In questa prospettiva, ritenendo che l’illecito imputato all’ente sia fonte di responsabilità aquiliana,parte della giurisprudenza di merito ha ammesso la costituzione dei danneggiati (Gip Trib. Torino, ord. 12 gennaio 2006, in www.reatisocietari.it; Gip Trib. Roma, ord. 21 aprile 2005, in www.reatisocietari.it.; Gip Trib. Napoli, ord. 25 gennaio 2008, in Merito, 2008, 61, Gup Trib. Milano, 24 gennaio 2008, in Cass. pen. 2008, 3861, con nota di Tesoriero; cfr. anche Gip trib. Milano, 5 febbraio 2008, inedita).

La giurisprudenza di merito che invece esclude tale ammissibilità evidenzia come “in mancanza di una previsione espressa, non può ritenersi ammissibile la costituzione di parte civile nei confronti dell'ente chiamato a rispondere di un illecito ex d.lgs. n. 231/2001.

Né potrebbe l'ammissibilità ricavarsi dagli elementi di matrice penalistica presenti nel decreto legislativo citato, in quanto nessuno di essi offre elementi decisivi in tal senso” (così, Trib. Torino, 2 ottobre 2008, Thyssenkrupp s.p.a., in Dir. pen. e proc. 2009, 851; nello stesso senso: Gup Trib. Milano, 18 gennaio 2008, in Cass. pen. 2008, 3858; Trib. Milano 18 aprile 2008. Cfr. anche Gip Trib. Torino, ord. 27 novembre 2004; Gip Trib. Milano, ord. 25 gennaio 2005, in Giust. pen., 2005, III, 374; Trib. Milano, 19 dicembre 2005, ivi, 2006, II, 119).

La tesi dell’inammissibilità appare preferibile: una corretta analisi della disciplina evidenzia l’incompatibilità tra il processo a carico dell’ente e la costituzione di parte civile, il sottosistema del d.lgs. 231/01 pur riconoscendo valore premiale all’Ente che abbia risarcito il danno o posto in essere condotte riparatorie, ignora significativamente la parte lesa in tale rito (in questo senso da ultima Gip Trib. Milano, ord. 11 giugno 2010, Italease, inedita).

Così, quando l’art. 54 del decreto prevede che la misura cautelare del sequestro conservativo possa essere richiesta dal pubblico ministero per evitare la dispersione delle garanzie per il pagamento della sanzione pecuniaria e non dalla parte civile in relazione alle obbligazioni civili derivanti da reato (al contrario del disposto dell’omologo art. 316 c.p.p.) deve ritenersi che non si tratti di “una mera dimenticanza del legislatore: si tratta invero di una precisa ed inequivocabile scelta legislativa nel senso di non prevedere nel procedimento in questione la parte civile” (Gip Trib. Milano, ord. 9 marzo 2004, in Riv. it. dir. pen. proc., 2004, 1333, con nota di Grosso; cfr. anche Trib. Milano, ord. 3 marzo 2005 in www.rivista231.it). Quindi anche nella più recente giurisprudenza di merito si affermava che «la irriducibile differenza strutturale tra reato ed illecito amministrativo (…) preclude in radice la possibilità di rinvenire la eadem ratio che consenta la estensione in via analogica del contenuto precettivo dell’art. 74 c.p.p. per le pretese risarcitorie scaturenti dalla responsabilità da reato dell’ente” (Gip Trib. Milano, ord. 11 giugno 2010, cit).

Anche la dottrina giungeva alle medesime conclusioni e auspicava che la Cassazione potesse confermare tale conclusione (sul punto, da ultimo, Lunghini, La responsabilità amministrativa degli enti nel processo penale: rassegna giurisprudenziale, in Bartolomucci – Lunghini, A dieci anni dal d.lgs. n. 231/2001: il modello organizzativo e la giurisprudenza, Il Corriere Giuridico, gli Speciali, 2010).

La sentenza in commento, al termine di una compiuta analisi della questione esclude che la natura della responsabilità in capo all’ente sia in grado di dirimere la questione. Inoltre, la Cassazione afferma che la possibilità di costituirsi parte civile non può essere considerata una lacuna colmabile attraverso l’interpretazione analogica perché, lungi dall’essere involontaria, tale lacuna emerge come precisa scelta del legislatore all’interno del sistema “231”.

La pronuncia respinge poi il tentativo di applicare gli art. 185 c.p. e 74 c.p.p. direttamente al processo a carico dell’ente in forza della clausola generale di cui all’art. 34 c.p.p. a causa della diversità strutturale del reato e dell’illecito dell’ente: “l’illecito non si identifica con il reato commesso dalla persona fisica, ma semplicemente lo presuppone”.

La sentenza appare pienamente condivisibile, non vi è d’altra parte alcun vuoto di tutela, potendo i soggetti danneggiati azionare le proprie pretese ex art. 2043 c.c. davanti al giudice civile. Il processo penale rischia di essere soffocato da un eccesso di parti processuali, la scelta di non estenderle ulteriormente è quindi non solo una corretta interpretazione del diritto vigente, ma anche una saggia scelta del legislatore da un punto di vista di politica criminale poiché limitando le parti rende i processi più snelli e quindi più efficiente l’attività processuale.


Fonte: IPSOA

0 commenti:

 
Top