Via libera all’accertamento induttivo nei confronti dell’azienda che sfrutta il lavoro nero. Infatti, corrispondere lo stipendio non contabilizzato, più che un costo, è la spia di un maggior volume d’affari e quindi di maggiore produttività.
Lo ha sancito la Corte di cassazione che, con l’ordinanza n. 2593 del 3 febbraio, ha respinto il ricorso di un’impresa artigiana che aveva pagato in nero un dipendente.

Il racconto
La vertenza ha origine da un avviso di accertamento, emesso nei confronti di un contribuente esercente attività manifatturiera, con il quale l’Agenzia delle Entrate, in esito al riscontro della presenza di un dipendente non risultante dai libri matricola e paga (ex articolo 20 Dpr 1124/1965) – all’epoca obbligatori, poi sostituiti nel 2008 dal Libro unico del lavoro – aveva accertato maggiori Irpef, Iva e Irap.

L’avviso era stato annullato in primo grado, ma la Commissione tributaria regionale ha riabilitato la pretesa impositiva, per l’“evidente” circostanza che il presupposto dell’accertamento induttivo è un “fatto incontestato”, rappresentato dalla presenza di un dipendente irregolare, per il quale lo stesso contribuente ha ammesso la corresponsione di una retribuzione non contabilizzata fra i costi dell’azienda. Tale circostanza è stata decisiva per il giudice del riesame:
potendo l’ufficio, da un lato, elaborare un ragionamento logico-giuridico in base al quale presumere l’esistenza di ricavi non contabilizzati e determinando l’importo su parametri riferiti alla qualifica e alle mansioni del lavoratore
dall’altro essendo rimessa al contribuente la facoltà di fornire la prova contraria agli assunti amministrativi.
Tale prova, tuttavia, non è stata fornita dall’impresa.

Nel susseguente ricorso per Cassazione, quest’ultima, sostenendo che il lavoratore in nero rappresentava un costo deducile, denunciava, tra l’altro, violazione dell’articolo 39, comma 1, lettera d), del Dpr 600/1973, per avere l’Amministrazione finanziaria violato il divieto di utilizzo di presunzioni di secondo grado(praesumptio de praesumpto o divieto di presunzioni a catena).

Il giudizio
Per la Cassazione, la presenza di costi del lavoro non contabilizzati ha legittimato il ricorso all’accertamento analitico-induttivo e, quindi, la rettifica di un maggior reddito da parte dell’ufficio per ricavi non contabilizzati.

Al riguardo occorre osservare che, nell’ambito dell’accertamento, “... l'inesistenza di passività dichiarate é desumibile anche da presunzioni semplici purché queste siano gravi, precise e concordanti” (ex articolo 39, comma 1, lettera d), del Dpr 600/1973).

D’altra parte, è bene precisare che, nel caso in esame, non rileva il richiamo della ricorrente al divieto di doppia presunzione (praesumptio de praesumpto), in cui sarebbe incorso, a suo dire, l’ufficio erariale. La Suprema corte ha ribadito, infatti, che il divieto di doppia presunzione opera solo tra presunzioni semplici e non può ritenersi, invece, violato nel caso in cui da un fatto noto si risale, in forza di presunzione legale relativa (ex articolo 39, comma 1, lettera d), del Dpr 600/1973), a un fatto ignoto(cfr Cassazione, sentenze 1023/2008, 27032/2007, 2612/2001 e 2639/1987).

Né la presenza di una contabilità formalmente regolare costituisce ostacolo alla determinazione di singole attività e passività mediante l’utilizzo di presunzioni “qualificate”. In effetti, la tipologia di accertamento in questione costituisce una sorta di “frontiera” nell’ambito dell’accertamento analitico, in quanto permette la rettifica delle singole poste di bilancio, anche attraverso il ricorso a presunzioni, fornite però dei noti requisiti di gravità, precisione e concordanza. In definitiva, attraverso questa metodologia non si perviene a una prova certa del maggior imponibile, ma la determinazione di questo può avvenire anche in via presuntiva (cfr sentenza 12482/1998).

Nel caso in questione, a ben vedere, nessuna violazione può essere addebitata all’Amministrazione finanziaria. Questa, infatti, dopo aver accertato la presenza di un dipendente non regolarmente assunto, per il quale il contribuente stesso ha ammesso la corresponsione di una retribuzione non contabilizzata, ha presunto l’esistenza non solo di maggiori costi per retribuzioni, ma anche di una maggiore redditività dell’impresa.
Dunque, la Suprema corte ha legittimato tale assunto affermando invece – nei riguardi della tesi avanzata dal contribuente – che, non solo il lavoratore “clandestino” non è un costo deducibile, ma la sua presenza fa senz’altro presumere un maggior reddito legato a un maggiore volume d’affari.
Inoltre, rispetto a tale ricostruzione, il contribuente non ha opposto alcuna prova contraria, come voluto, per scardinare gli addebiti mossi, dalla disposizione generale contenuta nell’articolo 2697, comma 2, codice civile.

In similare occasione, la Corte regolatrice ha confermato, infatti, che “nell'accertamento delle imposte sui redditi e con riguardo alla determinazione del reddito d'impresa, l'onere della prova dei presupposti dei costi ed oneri deducibili con riguardo alla determinazione del reddito d'impresa, ivi compresa la loro inerenza e la loro diretta imputazione ad attività produttive di ricavi, tanto nella disciplina del D.P.R. n. 597 del 1973 e del D.P.R. n. 598 del 1973 che del TUIR del 1986, incombe al contribuente” (sentenza 4554/2010).


Fonte: Agenzia Entrate

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