Risponde del reato di emissione di fatture false, la dipendente d’azienda che pone in essere l’attività materiale di compilazione dei predetti documenti contabili, nonostante tale condotta sia stata posta in essere per eseguire le indicazioni del datore di lavoro.
Lo ha affermato la Corte di cassazione, con la sentenza 4638 del 9 febbraio.

Il caso
La dipendente di un’azienda ha proposto ricorso per cassazione contro la sentenza con la quale la Corte d’appello di Brescia, confermando la pronuncia del Gup, l’aveva condannata per i reati di truffa a danno di enti previdenziali e di emissione di fatture false, con conseguente irrogazione della pena detentiva e pecuniaria (mesi sei di reclusione e 200 euro di multa), prevedendo la sostituzione della pena detentiva nella corrispondente pena pecuniaria di 6.840 euro, oltre al beneficio della non menzione nel casellario giudiziale.

A parere della signora, doveva essere censurata la ricostruzione operata dai giudici di merito e l’attribuzione a suo carico, come semplice dipendente, dell’esecuzione di modalità di illecita gestione del personale. Inoltre, tali comportamenti penalmente rilevanti dovevano essere attribuiti esclusivamente alla responsabilità del datore di lavoro, sia perché la stessa dipendente si era limitata a eseguirne gli ordini, finalizzati a coprire tra l’altro pagamenti in nero e una doppia contabilizzazione interna dei movimenti finanziari, sia perché la sua attività materiale di compilazione dei documenti non assumeva alcuna rilevanza all’esterno.

Inoltre, secondo la dipendente, non le poteva essere contestato il delitto di emissione di fatture false poiché mancava l’elemento soggettivo richiesto per la sussistenza del reato, non essendo configurabile nei suoi confronti il dolo specifico di evasione.

La sentenza della Corte
Con la sentenza 4638 del 9 febbraio, la Corte di cassazione torna a occuparsi del reato di “emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”, previsto dall’articolo 8 del Dlgs 74/2000. Lo fa con riferimento alla dipendente salvata dal decorso dei termini previsti per la prescrizione del reato ma non assolta nel merito.

La Cassazione, infatti, “… anche individuando il termine iniziale della prescrizione, per tutte le violazioni, dalla data di cessazione della continuazione tra i reati, ottobre 2002,” ha affermato che “gli stessi risultano ormai prescritti…., essendo ampiamente decorso il termine di sette anni e mesi sei dalla loro consumazione (ottobre 2002)”.
Nella fattispecie in esame, i giudici di legittimità hanno ritenuto di non escludere l’applicazione dei nuovi termini di prescrizione (legge 251/2005, articolo 10, comma 3), se più brevi, ai processi già pendenti in grado di appello o avanti la Corte di cassazione (Cassazione, sentenza 4638/2010, ordinanza 22357/2010 e sentenza 47008/2009; Corte costituzionale, sentenza 393/2006); ma con una precisazione: “La valutazione operata dai giudici di primo e secondo grado appare esente da censure logico giuridiche, e non vi è possibilità di applicazione nel merito dell’art. 129 c.p.p., in relazione al ruolo svolto… ” dalla donna “e correttamente descritto dai giudici di primo e secondo grado…”.

A norma dell’articolo 129 cpp, infatti, se la Corte avesse ritenuto non sussistere o non commesso il fatto, avrebbe comunque pronunciato sentenza di assoluzione nonostante la rilevata prescrizione. Tuttavia, nella fattispecie in esame, il giudice di legittimità non avrebbe potuto “assolvere” per la presenza degli elementi emersi nei gradi di merito che l’articolo 8 del Dlgs 74/2000 prevede per la configurabilità del reato.
Innanzitutto è evidente che, trattandosi di un reato comune, la fattispecie criminosa può essere realizzata non solo dal contribuente, ma anche da un terzo che, pur non rivestendo la qualifica di soggetto passivo dell’imposta, agisca al fine di consentire a un contribuente l’evasione fiscale o un indebito rimborso.
Con riferimento alla condotta tipica, la compilazione delle fatture ha permesso alla signora di apportare il proprio contributo causale alla verificazione del fatto, partecipando materialmente all’esecuzione del reato e concorrendo, quindi, con il datore di lavoro all’emissione di fatture false.

Di conseguenza, accogliendo il ricorso, nei limiti del solo motivo concernente la richiesta dell’applicazione dell’istituto della prescrizione, la Cassazione ha ritenuto penalmente rilevante il contributo materiale di un soggetto, diverso dall’emittente, che con la sua condotta ha comunque fornito collaborazione alla realizzazione del “fatto – reato”.

Alle stesse conclusioni di concorso nel reato di emissione di fatture false, la Corte è pervenuta con riferimento alla condotta del cliente e del commercialista che, d’accordo, avevano emesso fatture false al fine di consentire a un terzo l’evasione d’imposta. In tale fattispecie, era stato precisato che “Il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 9…, mentre esclude il concorso tra chi ha emesso la fattura e chi l’ha utilizzata (ad evitare che la medesima condotta sostanziale sia punita due volte - cfr. Cass. 3 giugno 2003 n. 24167…), non esclude invece il concorso nell’emissione della fattura o del documento per operazioni inesistenti secondo le regole ordinarie del concorso di persone nel reato ex art. 110 c.p...”(Cassazione, sentenza 35453/2010 e sentenza 8291/2006).

Né, nella fattispecie in esame, è servita a escludere l’imputabilità del delitto, la circostanza che la concorrente nel reato non abbia realizzato una condotta con rilevanza esterna alla struttura aziendale, propria invece dell’agente principale (l’imprenditore, soggetto passivo d’imposta).
Ciò anche per la natura del delitto di cui all’articolo 8. La Corte, infatti, ribadendo il proprio orientamento (sentenze 28654/2009, 12719/2007, 40172/2006 e 26395/2004), ha confermato che “l’emissione di fatture per operazioni inesistenti, disciplinata dall’art. 8 del D.Lgs. n. 74/2000…costituisce fattispecie incriminatrice di pericolo astratto”, come tale caratterizzato da un’anticipazione dell’intervento punitivo, e che non richiede un accertamento giudiziale dell’effettiva pericolosità dell’evento, poiché è sufficiente la sola condotta prevista dalla norma per determinare prevedibilmente la messa in pericolo o lesione potenziale dell’interesse protetto.

I giudici di legittimità, in proposito, hanno ritenuto corretta la ricostruzione del fatto compiuta dai giudici di merito in relazione al “ruolo” ricoperto dalla dipendente. La donna, ammettendo di aver agito come esecutrice degli ordini del capo, inoltre, ha dimostrato in modo obiettivo e inequivoco la propria partecipazione, cosciente e volontaria, al comportamento criminoso del suo datore di lavoro.
Quindi è risultato sussistente anche l’elemento soggettivo (il dolo specifico), richiesto dall’articolo 8. La dipendente, infatti, era consapevole della falsità delle fatture e anche del fine cui la propria attività era diretta (consentire l’evasione altrui) e tale consapevolezza è ben distinta dal movente in base al quale la stessa ha agito.

A tale riguardo, la Corte suprema ha precisato che “la sussistenza dell’elemento psicologico del reato deve essere esclusa solo qualora risulti che l’azione sia stata posta in essere per fini esclusivamente extratributari…”(Cassazione, sentenza 28654/2009), ma non qualora la partecipazione possa essere stata determinata, oltre che dal dolo, anche da motivi di lucro personale (la ricezione di un compenso economico) o, come nella fattispecie in esame, dal timore di avere “problemi” con il proprio datore di lavoro.

A seguito della sentenza 4638, allora, deve ritenersi che nel reato previsto dell’articolo 8 del Dlgs 74/2000 possano concorrere, insieme con il soggetto emittente, anche altre persone che abbiano prestato un consapevole contributo causale nella commissione del reato, come, ad esempio, dipendenti dell’azienda, contabili o consulenti istigatori.


Fonte: Agenzia Entrate

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