Con la sentenza 2221 del 31 gennaio, la Corte di cassazione ha stabilito che lo Statuto del contribuente (legge 212/2000) non garantisce la compensazione automatica dei crediti vantati dal cittadino nei confronti del fisco. Infatti, tale compensazione scatta soltanto nei casi espressamente previsti dalla legge.

La vicenda
Accogliendo il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, la sezione tributaria della Cassazione è intervenuta su una fattispecie in cui una società a responsabilità limitata aveva compensato, con il modello F24, un credito d’imposta previsto per gli investimenti nelle aree svantaggiate dall’articolo 8 della legge 388/2000, disapplicando così il divieto imposto, nel periodo di vigenza di sospensione di detti crediti, dapprima dall’articolo 1 del Dl 253/2002 (non convertito) e, successivamente, dall’articolo 62 della legge 289/2002.

La società asseriva, sostanzialmente, che la norma in questione era in contrasto con lo Statuto del contribuente, mentre l’ente impositore, al contrario, contestava che la disposizione aveva sospeso la fruizione di tali crediti nel periodo di riferimento, per cui era legittimo il recupero dell’indebito vantaggio conseguito dalla Srl (nella specie, l’utilizzo del credito d’imposta in questione è stato sospeso nel periodo che va dal 13 novembre 2002 al 9 aprile 2003 e la società non risultava avere provveduto al “riversamento” di quanto indebitamente utilizzato nel periodo di sospensiva).

Questa tesi aveva convinto i giudici di merito. Infatti, la Commissione tributaria provinciale aveva ritenuto legittima la compensazione, proprio perché la disposizione posteriore allo Statuto, legge di “rango superiore”, configgerebbe con l’articolo 3, comma 2, dello Statuto secondo cui “le disposizioni tributarie non possono prevedere adempimenti a carico dei contribuenti, la cui scadenza sia fissata anteriormente al sessantesimo giorno dalla data della loro entrata in vigore o dell’adozione dei provvedimenti di attuazione in esse espressamente previsti”.
Stessa sorte in secondo grado. Poi, il ricorso dell’Amministrazione finanziaria in Cassazione, tra l’altro, per palese violazione di legge in quanto la Commissione regionale si sarebbe “appropriata” di un giudizio riservato alla competenza della Corte costituzionale, ritenendo che, per effetto di una legge ordinaria che fissa principi di carattere generale, possa essere disapplicata altra norma ordinaria, neppure caratterizzata da efficacia retroattiva.

Norme di riferimento
Con il disposto di cui all’articolo 8 della legge 388/2000, il legislatore ha inteso attribuire un credito d’imposta, entro limiti massimi prefissati dalla Commissione delle Comunità europee, a quelle imprese, localizzate nelle aree depresse del Mezzogiorno e del Centro-Nord, per i nuovi investimenti in beni strumentali materiali e immateriali.
In fase di prima applicazione, l’articolo 8 stabiliva l’automatica fruizione del beneficio, con contestuale onere per i contribuenti interessati di calcolare l’ammontare del credito d’imposta spettante in relazione agli investimenti realizzati.
Successivamente, con l’articolo 10 del Dl 138/2002 (legge 178/2002), sono state apportate sostanziali modifiche in relazione all’ambito soggettivo dell’agevolazione e alla procedura da osservare per l’ammissione al beneficio, nonché ai limiti di intensità dello stesso, in modo da portare preventivamente a conoscenza dell’Amministrazione finanziaria l’effettiva consistenza degli investimenti da effettuare.
Ulteriori modifiche hanno interessato l’istituto mediante l’articolo 62 della legge 289/2002, che ha disciplinato tre diversi regimi di fruizione: oltre quello originario, applicabile agli investimenti avviati precedentemente all’8 luglio 2002 (data di entrata in vigore del Dl 138/2002), il regime applicabile agli investimenti avviati dall’8 luglio e fino all’11 agosto 2002 (ossia fino alla data di entrata in vigore della legge 178/2002, di conversione del Dl 138/2002), nonché il regime introdotto dalla legge 178/2002 applicabile dall’11 agosto 2002.

Con il Dm 6 agosto 2003 è stato precisato che, a seguito dell’abrogazione dell’articolo 1 del Dl 253/2002 per effetto dell’articolo 62 della legge 289/2002, sono stati fatti salvi, comunque, gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti sulla base della predetta disposizione, con la quale si prevedeva, tra l’altro, che chi ha conseguito il diritto al credito d’imposta ex articolo 8 della legge 388/2000 prima dell’8 luglio 2002, sospendeva gli ulteriori utilizzi del contributo a decorrere dal 13 novembre 2002, data di entrata in vigore dello stesso Dl 253/2002.

Al riguardo, la norma di cui all’articolo 62 della legge 289/2002 - spiega la Corte di cassazione (sentenza 15865/2005) - è diretta espressione del potere, demandato al ministro delle Finanze, di stabilire con Dm le procedure di controllo, prevedendo “specifiche cause di decadenza dal diritto di credito”, e trova la sua ratio nell’esigenza di definire entro un tempo determinato l’inerente onere finanziario, altrimenti sospeso ad libitum.

Il giudizio di Cassazione
La sezione tributaria ha stabilito la legittimità della sospensione del credito d’imposta introdotta con decreto legge, anche se apparentemente in contrasto con un principio generale dello Statuto del contribuente, in quanto si tratta di una norma contenuta in legge ordinaria successiva alla entrata in vigore dello Statuto stesso, e ha evidenziato – sulla scorta della propria giurisprudenza consolidata (sentenze 17576/2002, 9407/2005 e 8254/2009) – che le norme dello Statuto (emanate in attuazione degli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione e qualificate espressamente come principi generali dell’ordinamento tributario) sono, in alcuni casi, idonee a prescrivere specifici obblighi a carico dell’Amministrazione e costituiscono, in quanto espressione di principi già immanenti nell’ordinamento, criteri guida per il giudice nell’interpretazione delle norme tributarie (anche anteriori), ma non hanno, nella gerarchia delle fonti, rango superiore alla legge ordinaria, tant’è che ne è ammessa la modifica o la deroga, purché espressa, e non a opera di leggi speciali (articolo 1 dello Statuto).
Di conseguenza, non possono fungere da norme parametro di costituzionalità né consentire la disapplicazione della norma tributaria in asserito contrasto con le stesse. Si tratta, in sostanza, di criteri guida per il giudice nell’interpretazione delle norme tributarie.

Già la Corte costituzionale (ordinanza 180/2007), nel ribadire che la norma contenuta nell’articolo 3 dello Statuto non costituisce parametro idoneo a fondare un giudizio di legittimità costituzionale, aveva ritenuto priva di efficacia retroattiva la disposizione relativa all’obbligo di inviare, a pena di decadenza dai contributi ottenuti sotto forma di crediti d’imposta, i dati occorrenti per la ricognizione degli investimenti realizzati.

Giova, inoltre, ricordare che la stessa Consulta (ordinanza 185/2009) ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 62, comma 1, lettera a), della legge 289/2002, sollevata in riferimento agli articoli 3 e 97 della Costituzione, in quanto le finalità di tempestività ed economicità dei controlli fiscali, nonché l’esigenza di prevenire efficacemente comportamenti elusivi, realizzando meccanismi di verifica e pianificazione della spesa pubblica, giustificano la comminatoria della decadenza per l’ipotesi del mancato rispetto del termine fissato per la comunicazione dei dati al pari dell’accertamento sulla insussistenza dei presupposti applicativi.

In ultima analisi, una norma fiscale non può essere disapplicata soltanto perché è contraria allo Statuto del contribuente, né, d’altro canto, lo Statuto è idoneo a garantire la compensazione automatica dei crediti che il cittadino vanta nei confronti del Fisco, perché tale compensazione scatta soltanto nei casi espressamente previsti dalla legge (Cassazione, sentenza 2957/2010).


Fonte: Agenzia Entrate

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