In tema di sottofatturazione nella vendita a rate, l’evidente differenza tra i finanziamenti dei clienti e i prezzi di vendita dichiarati in bilancio dalla società costituiscono una presunzione semplice sufficientemente grave, precisa e concordante, da far scattare l’accertamento. È quanto stabilito dalla Corte di cassazione con l’ordinanza n. 5725 dell’11 aprile.

Il fatto
La Commissione tributaria provinciale accoglieva il ricorso prodotto da una srl contro un avviso di accertamento per Iva e Irap, il cui esito viene confermato anche dalla Commissione regionale. Da qui il conseguente ricorso per Cassazione con il quale l’ente impositore, nel denunciare violazione dell’obbligo di motivazione, contesta che la sentenza impugnata avrebbe omesso di considerare gli elementi di fatto che evidenziavano palesemente la “sistematica sottofatturazione” da parte della società, quali la mancanza di registrazione nella contabilità, delle battiture di scontrini fiscali equivalenti agli importi delle differenze non fatturate rispetto ai contratti di finanziamento, l'assenza di tali importi nel registro delle fatture emesse e in quello dei corrispettivi, l'esistenza di fatture attive relative alle differenze indicate.

La decisione
L’obiezione dell’ente ricorrente ha trovato pieno riscontro nel giudice di legittimità, il quale ha argomentato con succinta ma esaustiva ratio decidendi che nel ragionamento del giudice di merito risultante dalla sentenza opposta, “è riscontrabile una obiettiva deficienza del criterio logico che lo ha condotto alla formazione del proprio convincimento, relativamente ai fatti sopraenunciati”, nonostante la puntuale e dettagliata denuncia negli scritti difensivi della ricorrente.

In sostanza, accogliendo il ricorso dell’Amministrazione finanziaria, la Cassazione ha censurato il percorso decisionale del quale si erano resi protagonisti i giudici di entrambi i gradi di merito, per avere posto scarsa attenzione agli elementi di fatto versati in atti dagli organi di controllo, tutti convergenti, inequivocabilmente, verso una dissimulazione di componenti positivi di reddito.
Così, ritenendo “non sospetta” la sottofatturazione sistematica nella vendita a rate, in mancanza del documento fiscale rispetto all’importo finanziato per l’acquisto dei beni commerciati, ecc., il giudice di secondo grado non ha fatto altro che avallare quei comportamenti dei commercianti che, al fine di evadere le imposte, omettono di registrare tutto l’incasso in contabilità.

Sul tema, con sentenza n. 21455/2011, la Corte di cassazione ha stabilito che è prova di sottofatturazione ai fini Iva una evidente differenza tra i finanziamenti dei clienti e i prezzi di vendita dichiarati in bilancio dal venditore. In particolare, la divergenza costituisce una presunzione semplice sufficientemente grave, precisa e concordante, sulla base della quale l'Agenzia delle Entrate può emettere un avviso di accertamento. Ma tale divergenza tra i corrispettivi fatturati e gli importi richiesti a titolo di finanziamento costituisce un fatto che il giudice di merito deve esaminare per valutarne la sussistenza storica e la concludenza indiziaria, anche solo eventualmente per negarla, nell’ambito del percorso argomentativo che lo ha condotto a ritenere che le presunzioni semplici su cui si basava l’impugnato accertamento non fossero sufficientemente gravi, precise e concordanti ai fini della dimostrazione della sistematica sottofatturazione contestata dal Fisco.

In merito alle violazioni contestate al contribuente in ordine agli adempimenti di carattere fiscale, occorre poi ricordare che con ordinanza n. 12395/2010 la Corte di legittimità ha stabilito che "In tema di accertamento induttivo dei redditi d'impresa, consentito dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d) sulla base del controllo delle scritture e delle registrazioni contabili, l'atto di rettifica, qualora l'ufficio abbia sufficientemente motivato, sia specificando gli indici di inattendibilità dei dati relativi ad alcune poste di bilancio, sia dimostrando la loro astratta idoneità a rappresentare una capacità contributiva non dichiarata, è assistito da presunzione di legittimità circa l'operato degli accertatori, nel senso che null'altro l'ufficio è tenuto a provare, se non quanto emerge dal procedimento deduttivo fondato sulle risultanze esposte, mentre grava sul contribuente l'onere di dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate, anche in relazione alla contestata antieconomicità delle stesse, senza che sia sufficiente invocare l'apparente regolarità delle annotazioni contabili".

Infine, è recentissima l’affermazione in sede penale (Cassazione 13926/2012) che commette il reato di infedele dichiarazione Iva il professionista che emette fatture ma, non essendo state pagate, non le annota in contabilità e non ne indica in dichiarazione i relativi importi. In questo caso, ai fini dell’integrazione della fattispecie delittuosa, non occorre che venga conseguito un profitto, essendo sufficiente l’infedeltà dichiarativa.


Fonte: Agenzia Entrate

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