Per l’integrazione della fattispecie delittuosa della dichiarazione infedele – prevista dall’articolo 4 del Dlgs 74/2000 – è richiesta la mera presentazione di una dichiarazione non veritiera, ossia contenente elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo oppure elementi passivi fittizi in misura superiore a una certa soglia, senza necessità di ulteriori elementi fraudolenti.
Questa l’opportuna precisazione contenuta nella sentenza della Cassazione 13926 del 12 aprile, nella quale la Corte suprema pone l’attenzione sui diversi presupposti che sottendono alla tipologia criminosa in esame, residuale e meno grave, rispetto a quelle di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (articolo 2) e della dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (articolo 3).

In altri termini, il delitto previsto dall’articolo 4 del Dlgs 74 del 2000 – il cui incipit è “fuori dei casi previsti dagli articoli 2 e 3…” – richiede, per potersi configurare, il positivo accertamento che la fattispecie non rivesta gli estremi dei più gravi reati di dichiarazione fraudolenta previsti dalle due norme che lo precedono, e quindi il carattere fraudolento della condotta criminosa.
Ne consegue che, la dichiarazione è infedele qualora in essa il contribuente indichi ricavi per un ammontare inferiore a quello effettivo o costi fittizi purché, per pervenire a detta indicazione, non si sia avvalso degli artifici tipizzati nei precedenti articoli 2 – in relazione alle fatture o agli altri documenti per operazioni inesistenti – e 3, mezzi fraudolenti idonei a ostacolare l’accertamento e falsa rappresentazione nelle scritture contabili obbligatorie.

Il giudizio di merito
Un contribuente impugna in Cassazione la sentenza della Corte di appello di Palermo, con la quale quest’ultima lo aveva condannato per il reato di dichiarazione infedele in quanto, in qualità di libero professionista, aveva emesso varie fatture di notevole importo per prestazioni professionali rese a una società – del quale lo stesso era legale rappresentante – senza indicare tali importi nella dichiarazione Iva dell’anno di riferimento, omettendo, quindi di versare l’Iva dovuta per oltre un milione di euro.
Nel ricorso, il contribuente lamenta l’erroneità della sentenza dei giudici siciliani laddove hanno ritenuto sussistente il reato di dichiarazione infedele pur in assenza dell’elemento soggettivo, in quanto, sebbene egli abbia emesso le fatture, non ha incassato i relativi compensi dalla società e, com’è noto, ai fini della sussistenza dell’obbligo di versamento dell’Iva, la prestazione di servizi si intende effettuata al momento del pagamento del corrispettivo.

La decisione della Cassazione
Per i giudici di piazza Cavour il ricorso è infondato.
Riguardo alle motivazioni, la Cassazione ricorda che, in materia di Iva, l’articolo 6 del Dpr 633/1972 dispone che le prestazioni di servizi sono soggette all’imposta soltanto se rese verso corrispettivo e si considerano effettuate all’atto del relativo pagamento.
Tuttavia, sebbene prima del pagamento non vi sia, per il professionista, alcun obbligo di fatturazione (ma solo una facoltà) né di pagamento dell’imposta, una volta emessa la fattura, invece, sorge tale obbligo con riferimento sia al versamento sia alla presentazione della relativa dichiarazione ai fini Iva.

In merito all’integrazione del delitto di dichiarazione infedele, la Corte suprema afferma che “…è sufficiente che la dichiarazione presentata ai fini IVA contenga ‘elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi’ e che ricorrano le altre condizioni previste in relazione all’ammontare dell’imposta evasa e degli elementi attivi sottratti alla imposizione, fatto che assicura che la condotta infedele accertata sia qualitativamente tale da arrecare all’amministrazione finanziaria un nocumento sostanziale e non solo formale, seppure non è richiesto necessariamente per il perfezionamento del reato l’evento danno”.

In sostanza, per la Cassazione, la dichiarazione infedele, a differenza delle altre ipotesi di reato previste dal Dlgs 74/2000, è “…un delitto di danno per la cui configurazione,…non è necessaria una dichiarazione fraudolenta”.
Infatti, in virtù della clausola di riserva iniziale contenuta nel richiamato articolo 4, la dichiarazione infedele è esclusa – a favore delle fattispecie di cui ai reati di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti oppure mediante altri artifici – quando la condotta è caratterizzata da elementi fraudolenti.
L’elemento psicologico del reato in argomento, continua ancora la Cassazione, è il dolo specifico, ossia la volontà di evadere le imposte; dolo che, nel caso concreto, si è manifestato – circostanza correttamente rilevata dai giudici di appello – nel fatto che le fatture emesse dal professionista non erano state da questo registrate come ricavi (e quindi non era stata versata l’Iva relativa), mentre erano state registrate dalla società come costi, con conseguente detrazione, da parte di quest’ultima dell’Iva assolta.

Pertanto, conclude la Corte, per l’integrazione del reato di dichiarazione infedele, non è necessario il conseguimento di un profitto, “…essendo sufficiente l’infedeltà dichiarativa, ossia la violazione dell’obbligo di una prospettazione veritiera della situazione reddituale e delle basi imponibili…”.

Osservazioni
Con la sentenza in commento la Cassazione delinea gli elementi, soggettivi e oggettivi, che contraddistinguono la fattispecie della dichiarazione infedele che rappresenta, oltre a una ipotesi residuale, anche una figura di confine tra le altre due tipologie delittuose connesse alla dichiarazione (articoli 2 e 3 del Dlgs 74/2000).
Trattasi, infatti, di una fattispecie che ha qualcosa in più della semplice violazione amministrativa (il superamento delle soglie di punibilità) e qualcosa in meno del delitto di dichiarazione fraudolenta (la condotta fraudolenta).
Tale reato che, a dispetto della formulazione utilizzata (chiunque), è un reato proprio, in quanto configurabile solo in capo a coloro che sono soggetti all’obbligo di presentare la dichiarazione ai fini delle imposte sui redditi e/o sul valore aggiunto, ancorchè non obbligati alla tenuta delle scritture contabili, è posto a tutela diretta dell’interesse patrimoniale dell’Erario, in quanto vengono punite condotte che cagionano, laddove superiori alle soglie di punibilità, un danno sostanziale, e non solo formale, all’Amministrazione.

Da un punto di vista oggettivo, il reato di dichiarazione infedele è caratterizzato da un’ampia portata applicativa, essendo richiesta la mera presentazione di una dichiarazione non veritiera, non qualificata da ulteriori elementi fraudolenti né, tantomeno, è necessario che venga realizzato un comportamento idoneo a rendere difficile – per l’Amministrazione finanziaria – la ricostruzione della posizione fiscale del contribuente. Infatti, solo con la presentazione della dichiarazione annuale, relativa alle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, si realizza il presupposto obiettivo dell’evasione d’imposta e la concreta offesa degli interessi connessi al prelievo fiscale.
Invece, dal lato soggettivo, la fattispecie criminosa richiede la coscienza e volontà del soggetto di compiere atti finalizzati all’evasione di imposta, connotate dal cosiddetto dolo di evasione fiscale, secondo lo schema tipico del dolo specifico (Cassazione, sezioni unite, 27/2000).


Fonte: Agenzia Entrate

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