L'accertamento, in corso d'opera, del mutamento di destinazione d'uso va effettuato sulla base dell'individuazione di elementi univocamente significativi, propri, del diverso uso cui è destinata l'opera e non coerenti con la destinazione originaria.
Tema interessante quello trattato dalla Suprema Corte con la sentenza in commento, chiamata a pronunciarsi su un ricorso con cui l’imputato, sia in primo che in secondo grado, era stato riconosciuto colpevole per aver realizzato interventi edilizi in difformità rispetto alla concessione edilizia, in particolare operando un mutamento di destinazione d’uso di alcune unità immobiliari.

La Corte, di fronte alla contestazione difensiva secondo la quale i giudici non avrebbero potuto condannare l’imputato in quanto gli interventi edilizi erano ancora “in itinere” poiché gli alloggi erano in costruzione, esclude che nel caso in esame fosse stato fatto un “processo alle intenzioni”, ritenendo, invece, che sulla base dei dati oggettivi ed incontrovertibilmente emersi dall’istruttoria, in realtà tutto lasciava intendere che quanto già realizzato fosse espressione di un chiaro intento edificatorio abusivo, donde la correttezza del ragionamento dei giudici che avevano riconosciuto colpevole l’imputato per aver commesso l’illecito contestatogli.

Il fatto

Il caso da cui ha preso le mosse il Supremo Collegio vedeva imputato il proprietario e socio di una cooperativa al quale era stato addebitato di aver eseguito lavori edili in difformità dalla concessione edilizia rilasciata dal Comune, lavori consistiti nella creazione di unità immobiliari nel sottotetto del fabbricato con impianti di illuminazione, idrici, di riscaldamento, di condizionamento e di scarico, nonché nell’installazione di impianti di riscaldamento e di utenze gas nei piani interrati, scale interne di collegamento, il tutto in difformità dal progetto presentato ed in contrasto con le norme tecniche di attuazione di un PEEP (piano edilizia economica popolare).

Nel doppio giudizio di merito che ne era seguito, l’imputato era stato condannato per la violazione dell’art. 44, comma 1, lett. b) del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (esecuzione di interventi edilizi in totale difformità dal permesso di costruire), ritenendo che, pur essendo in corso d’opera i lavori, quanto già realizzato rendesse evidente l’intento edificatorio abusivo.

Il ricorso

Le conclusioni dei giudici di merito non avevano, però, convinto la difesa dell’imputato che, diversamente, contestava, mediante ricorso per cassazione, che le difformità descritte in realtà non erano univocamente indicative di una modificazione della destinazione d’uso dei sottotetti e dei piani interrati, modificazione che non si era ancora verificata essendo tutti gli alloggi ancora in costruzione, sicchè l’affermazione di colpevolezza dell’imputato sarebbe stata fondata su un “processo alle intenzioni”.

Il giudizio di legittimità Il punto di vista difensivo non ha fatto breccia nella valutazione degli ermellini.

La Cassazione, infatti, con riferimento a tale specifico motivo di ricorso, ha disatteso la prospettazione difensiva, confermando il giudizio di condanna cui erano giunti i giudici di merito nel doppio grado di giudizio già svoltosi, svolgendo alcune interessanti considerazioni.

Anzitutto, per quanto concerne il tipo di abuso accertato, deve osservarsi come non vi sia alcun dubbio che di fronte ad un mutamento di destinazione d’uso non assentito, scatti il reato edilizio oggetto di contestazione.

Sul punto pacifico è l’orientamento giurisprudenziale il quale ritiene che la costruzione in "totale difformità" dal titolo abilitativo può derivare dal mutamento di destinazione di uso di un immobile preesistente, che va equiparato al fatto della realizzazione di una costruzione edilizia in assenza o in totale difformità dalla concessione (o permesso di costruire) allorché esso non sia puramente funzionale ma si realizzi attraverso opere strutturali implicanti una totale modificazione rispetto al preesistente e al previsto, che sia urbanisticamente rilevante (v., già nella giurisprudenza formatasi sotto la vigenza della Legge n. 47/1985: Cass. pen., sez. 3, 28/10/99, n. 12271, F. e altri, in Ced Cass. 214526; v., nella giurisprudenza più recente, successiva all’entrata in vigore del d.P.R. n. 380/2001: Cass. pen., Sez. 3, 29/1/08, n. 4555, P.M. in proc. M., in Ced Cass. 238854).

A ciò, poi, si aggiunge la considerazione secondo cui ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 44, lett. b), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 in caso di mutamento di destinazione d'uso edilizio per difformità totale delle opere rispetto al titolo abilitativo, l'individuazione della precedente destinazione d'uso non si identifica con l'uso fattone in concreto dal soggetto utilizzatore, ma con quella impressa dal titolo abilitativo assentito, in quanto il mutamento di destinazione d'uso giuridicamente rilevante e' solo quello tra categorie funzionalmente autonome dal punto di vista urbanistico (Cass. pen., Sez. 3, 5/3/09, n. 9894, T., in Ced Cass. 243100).

Ciò detto, poi, il Supremo Collegio si sofferma sulla questione più delicata, ossia indicare delle “guidelines” ai giudici di merito che consentano di individuare quando, ed in presenza di quali elementi, può fondatamente ritenersi che, trattandosi di interventi edilizi in corso d’opera, si tratti di reali (e non solo potenziali o congetturali) abusi edilizi.

Sulla questione la Corte è chiara.

Il reato di esecuzione dei lavori in totale difformità dal permesso di costruire (art. 44, comma primo, lett. b) del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380) non presuppone necessariamente il completamento dell'opera, ma e' configurabile anche nel caso di interventi edilizi in corso di esecuzione, in quanto la difformità può risultare palese durante l'esecuzione dei lavori allorché dalle opere già compiute risulti evidente la realizzazione di un organismo diverso da quello assentito (v., in termini: Cass. pen., Sez. 3, 12/11/07, n. 41578, B.F., in Ced Cass. 238000).

Affermazione, questa, che fa da pendant ad altro approdo giurisprudenziale secondo cui per individuare la natura e la sussistenza di detta difformità non e' necessario attendere il completamento dell'opera ove, da quanto già realizzato, si possa desumere che il manufatto, una volta ultimato, assumerebbe caratteristiche diverse da quelle progettate (Cass. pen., Sez. 3, 1/4/08, n. 13592, P.M. in proc. D., in Ced Cass. 239837).

Ciò, ovviamente, non significa che sia punibile il “tentativo” (com’è noto escluso per i reati edilizi in quanto reati contravvenzionali, posto che l’art. 56 c.p. riferisce il tentativo ai soli delitti e non anche alle contravvenzioni), in quanto, in realtà, soprattutto quando l’interruzione della volontà edificatoria interviene in fase di indagini preliminari con l’adozione di un sequestro preventivo, non è possibile qualificare l'illecito edilizio nella forma tentata, in quanto scopo del sequestro e' quello di impedire proprio che l'illecito si compia e si perfezioni (v., in tal senso: Cass. pen., Sez. 3, 21/4/10, n. 15222, C. e altro, in Ced Cass. 246962).

Ben si spiega, quindi, l’affermazione conclusiva dei Supremi Giudici i quali, nel risolvere negativamente la questione proposta dalla difesa, precisano, condivisibilmente, che in corso d’opera l’accertamento del mutamento di destinazione d’uso va effettuato sulla base dell’individuazione di elementi univocamente significativi, propri, del diverso uso cui è destinata l’opera e non coerenti con la destinazione originaria.

Nel caso in esame, infatti, le opere già realizzate all’interno del fabbricato destinate ad uso non abitativo erano inequivocabilmente dimostrative della diversa destinazione in corso di realizzazione, non assentita dal permesso di costruire e certamente idonea ad incidere sul carico urbanistico, dovendosi, quindi, ritenere sussistente il reato “non occorrendo certamente il completamento degli interventi abusivi per configurarlo”.

(Sentenza Cassazione penale 09/03/2011, n. 9282)


Fonte: IPSOA

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