Il regime di imposizione previsto dagli studi di settore, fondato su dati statistici di “normalità economica” eventualmente “patteggiati” nonché su una sostanziale presunzione di colpevolezza, spesso tecnicamente incontrastabile, risulta applicato in spregio ai superiori principi di effettiva “soggettività dei ricavi”, di neutralità e di trasparenza del sistema generale dell’IVA e mortifica le posizioni della Corte di Giustizia UE in materia, sia sul piano sostanziale della quantificazione della base imponibile sia sul piano procedimentale in tema di inversione dell’onere della prova posta a carico del contribuente. E’ questa la “dura” conclusione alla quale è giunta la Commissione di studio per l’esame della compatibilità comunitaria di norme e prassi tributarie italiane costituita dall’Associazione italiana dottori commercialisti ed esperti contabili (AIDC).
Nel documento, infatti, si vuole dimostrare l’insanabile conflitto delle caratteristiche essenziali degli studi di settore con le pertinenti disposizioni della direttiva n. 112/2006/CE (IVA). Infatti, gli studi di settore conducono ad applicare l’IVA, non già in base al sempre illegittimo valore normale di una singola operazione compiuta dal soggetto passivo, bensì in base al valore normale di tutte le ordinarie operazioni attive compiute annualmente nel loro complesso (vendite e prestazioni di servizi) da parte di uno stesso soggetto passivo.

Il grido di “dissenso” che è possibile cogliere dalla lettura del documento è dettagliatamente supportato da una rigorosa analisi dell’evoluzione degli studi di settore non solo attraverso le norme ma anche la prassi dell’Agenzia delle Entrate e la giurisprudenza di legittimità.

E, da quanto sembra di capire, questo non è che l’inizio in quanto, con successivo documento, ci si occuperà dell’impatto degli studi di settore anche nell’imposizione diretta.

Vale dunque la pena ripercorrere brevemente il ragionamento che ha portato ad una posizione così critica.

Gli effetti distortivi dell’applicazione degli studi di settore

Il punto di partenza dell’analisi svolta dall’AIDC sta nella volontà, dapprima del Legislatore e poi del suo braccio “operativo” (e cioè dell’Agenzia delle Entrate) di giustificare l’applicabilità degli studi di settore ai singoli casi concreti.

Infatti, di fronte ad un posizionamento del contribuente al di fuori dei valori “normalizzati” risultanti dall’applicazione degli studi di settore, la prassi degli uffici è quella di convocare lo stesso per definire la sua posizione mediante accertamento con adesione.

Se questo modus operandi può essere visto con “benevolenza” in quanto frutto di una particolare “sensibilità” da parte dell’Amministrazione nei confronti dei contribuenti, ciò non deve trarre in inganno: infatti, in tal modo non si fa altro che attribuire al contribuente un volume d’affari (ed un imponibile, giusto per rimanere in tema di IVA) che prescinde sia dalle risultanze contabili (e ciò è tanto più grave se la contabilità è ritenuta corretta e non contestabile) che dalla sua reale situazione economico-professionale e, quindi, diverso dalla sommatoria dei corrispettivi affettivamente conseguiti.

L’impari difesa del contribuente

Ad aggravare ancora di più la situazione va ricordato che il contribuente che voglia in qualche modo contrastare l’operato dell’ufficio si trova in una posizione di evidente inferiorità. Infatti, il contrasto ai risultati degli studi di settore è pressoché impossibile a causa dell’elevatissimo grado di tecnicità delle elaborazioni statistiche alla base della loro determinazione.

Tanto è vero che, “per gli umani” è precluso di conoscere il meccanismo di calcolo che sta alla base delle elaborazioni su cui si basano gli studi di settore.

Va comunque detto che, specialmente negli ultimi anni, sono stati adottati correttivi che tengono conto della grave crisi economica che si sta attraversando, ma anche in tal caso, non è dato sapere come tali correttivi intervengono nei calcoli.

In buona sostanza, il contribuente si trova a dover dimostrare ciò che non può dimostrare: e cioè, se si vuole sostenere che i (maggiori) valori risultanti dagli studi di settore non corrispondono alla propria realtà soggettiva in quanto frutto di calcoli non veritieri come si può farlo se non si conosce il meccanismo che sta a base dei suddetti calcoli?

Tra l’altro, come giustamente si fa notare nel documento dell’AIDC, si assiste ad una “pericolosa deriva dei discutibili presupposti di una sostanziale inversione dell’onere della prova” laddove il contribuente è posto, in sede di contraddittorio, su di un piano di disequilibrio sostanziale in quanto, da un lato egli ha limitati strumenti di difesa delle proprie ragioni e, dall’altro, alle risultanze degli studi di settore viene dato un forte potere probatorio. Infatti, l’inversione della prova, così come sopra delineato, è stato già oggetto di censure da parte della Corte di Giustizia UE (si vedano le sentenze 9 dicembre 2003, causa C-129/2000 e 9 luglio 2009, causa C-397/07).

Conclusioni

Dalle poche righe sopra riportate è evidente il grosso problema che si pone: a fronte di una posizione sempre più “aggressiva” dell’Amministrazione finanziaria che, avendo il suo core business su una (giusta) lotta all’evasione fiscale, cerca di utilizzare al massimo gli strumenti che il Legislatore le mette a disposizione, il contribuente (onesto) potrebbe pagare il prezzo più alto.

Infatti, quest’ultimo si trova a dover combattere, con armi spuntate, contro un complicatissimo meccanismo giuridico che si basa su presunzioni difficilmente contestabili.

E tale problema è destinato a restare irrisolto finché si vorrà giustificare l’applicabilità degli studi di settore (quali indicatori di media probabilità) ai singoli casi concreti usando, quindi, metodi c.d. “standardizzati” o di “massa” per facilitare accertamenti fiscali a tavolino evitando di svolgere idonee indagini e verifiche fiscali specifiche ed inerenti ai singoli casi concreti.


Fonte: IPSOA

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