Il reato di dichiarazione fraudolenta attraverso l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti da parte dell’amministratore legittima il sequestro preventivo, ai fini della confisca, delle somme sottratte al pagamento dell’Iva e depositate nei conti correnti intestati alla società, perché costituenti il profitto del reato.
A questa conclusione è giunta la Corte di cassazione con la sentenza 204 del 7 gennaio.

Il fatto
La vicenda trae origine dall’ordinanza con la quale il tribunale del riesame ha confermato il decreto di sequestro preventivo, emesso dal Gip, nell’ambito di un procedimento penale a carico di due soggetti e disposto su somme depositate nei conti correnti di una società.
Si premette che, a seguito di una verifica fiscale, la Guardia di Finanza aveva contestato il reato di dichiarazione fraudolenta ai fini Iva, perpetrata attraverso l’utilizzo di fatture per operazioni inesistenti da parte di una società, per le annualità 2007-2009.
Il reato era stato imputato in capo ai legali rappresentanti della società utilizzatrice delle fatture.
Il tribunale del riesame, contestando i motivi di gravame avanzati dalla difesa, ha ritenuto legittimo il sequestro preventivo sui conti correnti della società.
Contro l’ordinanza, gli indagati proponevano ricorso in Cassazione.
In primo luogo, i rei contestavano l’ordinanza nella parte in cui i giudici d’appello disponevano il sequestro su beni di proprietà della società, sebbene questa fosse un soggetto estraneo al reato di evasione fiscale.

A parere della difesa i giudici, disponendo il sequestro su beni di proprietà della società, avevano di fatto equiparato l’ente agli indagati.
Così facendo non sarebbe stato considerato che la “confisca per equivalente” nei confronti di una società, prevista dall’art. 19 del D.Lgs. 231/2001, non può avere ad oggetto beni appartenenti a una persona giuridica, se non nei casi specificatamente previsti dalla citata norma, tra i quali non rientrano quelli tributari.

Da ciò l’asserita illegittimità del sequestro ai danni della società.
Inoltre, i ricorrenti contestavano la mancanza del fumus commissi delicti, presupposto necessario per la disposizione della misura cautelare.
La difesa lamentava che l’utilizzo di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti non integra la fattispecie penale di cui all’articolo 2 del Dlgs 74/2000, poiché
le operazioni sottostanti erano realmente avvenute, riflettendo così costi effettivamente sostenuti e, pertanto, la relativa Iva era legittimamente detraibile.
A sostegno del proprio apparato difensivo, i ricorrenti affermavano che la società fosse in evidente buona fede e non aveva tratto alcun vantaggio da detti acquisti, in quanto le forniture erano state pagate ai prezzi di mercato, seppur la Guardia di Finanza sosteneva che le società fornitrici fossero delle mere “cartiere”.
La Suprema corte, ritenendo infondati i motivi di doglianza, ha deciso per la cassazione dei ricorsi.

La decisione
Con la pronuncia in commento i giudici di legittimità affrontano il tema del sequestro finalizzato alla confisca “in forma specifica” nel caso di evasione ai fini Iva, differenziandolo dall’istituto della confisca “per equivalente”.
La trattazione del tema muove le mosse dalle conclusioni contenute nell’ordinanza del tribunale del riesame.
In tale sede i giudici d’appello avevano ritenuto che il sequestro preventivo dei beni appartenenti alla società, nel caso specifico i conti correnti ad essa intestati, non fosse diretto alla confisca per equivalente, bensì disposto “ai fini della confisca in forma specifica”.

La problematica era sorta in quanto la misura cautelare era rivolta nei confronti dell’ente giuridico, sebbene gli indagati fossero in realtà i legali rappresentanti della società medesima.
In effetti, gli indagati-persone fisiche e la società, da essi rappresentata, costituiscono soggetti formalmente distinti.
A parere dei giudici della Cassazione, che sul punto confermano la posizione del tribunale del ricorso, nel caso in cui si fosse realmente trattato di un sequestro finalizzato alla confisca per equivalente, sarebbe stato illegittimo porre un vincolo sui beni della società successivamente alla contestazione di un reato di natura tributaria in capo agli amministratori.
Infatti, la confisca dei beni appartenenti ad una persona giuridica, fattispecie regolata dall’articolo 19 del Dlgs 231/2001, non è prevista nel caso di commissione di reati di natura tributaria, quale la dichiarazione fraudolenta ai fini Iva.
Diversamente, nel caso sottoposto all’esame dei giudici della Suprema corte, il vincolo disposto sui conti correnti della società non è costituito dal sequestro per equivalente, ma dal sequestro in forma specifica, che investe direttamente il profitto del reato di evasione fiscale, costituito dalle somme sottratte al pagamento dell’Iva dovuta e successivamente depositate nei conti correnti intestate alla società e nella diretta disponibilità degli indagati.
Infatti, come confermato nella pronuncia, il sequestro “concerne in via diretta il denaro profitto dei reati di evasione fiscale in oggetto, denaro che gli stessi indagati hanno fatto rifluire nei conti correnti intestati alla società, delle quali gli stessi sono rappresentanti legali.”

Vige in tal caso il principio, peraltro già affermato dalla stessa Corte con sentenza 29951 del 09/07/2004, per cui “è ammissibile il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di somme di denaro che costituiscono profitto di reato, sia nel caso in cui la somma si identifichi proprio in quella che è stata acquisita attraverso l’attività criminosa, sia quando sussistono indizi per i quali il denaro di provenienza illecita risulti depositato in banca ovvero investito in titoli, trattandosi di assicurare ciò che proviene dal reato e che si è cercato di occultare.”

La pronuncia in commento esamina altresì il tema dell’astratta configurabilità del reato di dichiarazione fraudolenta, contemplato all’articolo 2 del Dlgs 74/2000.
La citata disposizione prevede la condanna di “chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi passivi fittizi.”
La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, con precipuo riguardo all’Iva, la fattispecie criminosa sussiste sia in caso di inesistenza oggettiva, ossia in presenza di costi effettivamente sostenuti, che di inesistenza soggettiva, ossia quella relativa alla diversità tra soggetto che ha effettuato la prestazione e quello emittente il documento.

La Cassazione precisa che il sistema di recupero dell’Iva “è fondato sul presupposto che tale imposta vada versata a chi effettivamente ha eseguito la cessione o la prestazione, che a sua volta potrà compensarla con l’IVA versata per l’acquisto di beni e servizi, mentre il versamento dell’IVA ad un soggetto non operativo produce il successivo indebito recupero dell’IVA stessa da parte del cessionario nei confronti dell’acquirente o dell’utilizzatore finale della prestazione.”

Se ne deve dedurre, quindi, che la detrazione dell’imposta è legittimamente ammessa solo in presenza di fatture emesse dal soggetto che ha effettuato la cessione o eseguito la prestazione.
Il discorso non è ripetibile per le imposte dirette, poiché qui l’inesistenza è limitata alla solo fattispecie oggettiva, ossia quella relativa alla diversità, totale e parziale, tra costi indicati e costi sostenuti.


Fonte: Agenzia Entrate

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