Nonostante la presentazione di una dichiarazione “rettificativa”, il contribuente che ha evaso le imposte non può fruire della speciale attenuante prevista dall’articolo 13 del decreto legislativo 74/2000, se non ha estinto il debito tributario.
E’ questa una delle conclusioni alle quali giunge la Corte di cassazione con la sentenza 176 del 7 gennaio.

Il fatto
Il giudice dell’udienza preliminare aveva dichiarato colpevole del delitto previsto dall’articolo 2 del decreto legislativo 74/2000 (dichiarazione fraudolenta mediante utilizzo di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti) il legale rappresentante di una società a responsabilità limitata, condannandolo a quattro mesi di reclusione.
Ciò in quanto, al fine di evadere le imposte sui redditi, aveva indicato nella dichiarazione presentata per l’anno 2004, elementi passivi fittizi riconducibili a una fattura emessa nell’anno 2005 ma relativa a lavorazioni che sarebbero state eseguite nell’anno precedente.

La sentenza di primo grado era stata poi confermata dalla Corte d’appello, motivo per cui l’imputato aveva presentato ricorso per cassazione.

Il ricorso
Il ricorrente lamentava, in primo luogo, la violazione del citato articolo 2 del decreto legislativo 74/2000, mancando il dolo della fattispecie contestata, ovvero l’intento di evadere l’imposta sui redditi.
Infatti, secondo l’imputato, nella dichiarazione relativa al periodo d’imposta 2004, l’imputato si era avvalso soltanto della fattura contestata, mentre se effettivamente avesse perseguito un fine illecito, avrebbe indicato, nella stessa dichiarazione, anche gli elementi passivi fittizi riconducibili alle altre fatture ricevute.

In secondo luogo, lamentava l’erronea applicazione dell’articolo 13 del Dlgs 74/2000 che, nella versione applicabile al caso concreto, anteriore alle modifiche introdotte dal Dl 138/2011, disponeva: “Le pene previste per i delitti di cui al presente decreto sono diminuite fino alla metà e non si applicano le pene accessorie indicate nell'articolo 12 se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari relativi ai fatti costitutivi dei delitti medesimi sono stati estinti mediante pagamento, anche a seguito delle speciali procedure conciliative o di adesione all'accertamento previste dalle norme tributarie”.

A suo parere, la concessione della predetta attenuante era stata ingiustamente negata dai giudici di merito, i quali non avevano preso in considerazione una testimonianza, a tal fine decisiva, dalla quale emergeva che la società di cui era rappresentante legale aveva presentato, ai sensi dell’articolo 2, comma 8, del Dpr 322/1998, una dichiarazione “rettificativa” per correggere gli errori derivanti dalla dichiarazione presentata in precedenza nei termini di cui all’articolo 43 del Dpr 600/1973.

Da ultimo, contestava l’illogicità del trattamento sanzionatorio in quanto, pur di fronte a un fatto oggettivamente modesto, privo di conseguenze economicamente significative per l’Erario, gli era stata negata la conversione della pena detentiva in una sanzione pecuniaria.

La pronuncia
La Corte di cassazione, con la sentenza 176 del 7 gennaio, ha rigettato il ricorso, condannando l’imputato anche al pagamento delle spese legali.

Con riferimento al primo motivo di ricorso, i giudici di legittimità hanno avallato la tesi dei gradi di merito ovvero che il ricorrente fosse perfettamente a conoscenza della falsità della fattura contestata. Tale circostanza, peraltro confermata dalla madre del contribuente alla Guardia di Finanza, emergeva anche dal verbale di acquisizione di documentazione redatto dalle Fiamme gialle, in cui l’imputato aveva dichiarato di aver contabilizzato la fattura falsa, quale costo di competenza del 2004, su precisa indicazione della società.

In più, ha aggiunto la Corte suprema, l’imputato aveva utilizzato la sola fattura contestata, in quanto era l’unica che poteva essere riferita al periodo d’imposta 2004.

Per la Cassazione, risultava infondato anche il secondo motivo di ricorso, concernente la mancata concessione dell’attenuante prevista dall’articolo 13 del decreto legislativo 74/2000.
Al riguardo, i giudici di piazza Cavour hanno richiamato una precedente sentenza, la 30580/2004, nella quale è stato affermato che la predetta attenuante “non è applicabile in caso di adesione all’accertamento, atteso che la stessa è subordinata all’integrale estinzione del debito tributario mediante il pagamento, anche nel caso in cui il contribuente abbia espletato le speciali procedure conciliative previste dalle norme tributarie”. Di conseguenza, bene avevano fatto i giudici di merito a escludere l’applicazione dell’attenuante, dal momento che l’imputato non aveva estinto integralmente il suo debito con l’Erario.

Privo di fondamento è stato ritenuto anche l’ultimo motivo di ricorso, in quanto, rientrano nella discrezionalità del giudice di merito tanto la gradazione quanto la conversione della pena. In quest’ultimo caso (cfr articolo 53 della legge 689/1981), in particolare, spetta all’autorità giudiziaria “valutare i presupposti legittimanti quali la idoneità della sostituzione al fine del reinserimento sociale del condannato e della prognosi positiva circa l’adempimento delle prescrizioni applicabili” (cfr Cassazione sentenza 528/2006).
Nel caso in esame, l’imputato, pur avendo indicato una sola fattura nella dichiarazione dei redditi per l’anno 2004, aveva manifestato, con l’annotazione in contabilità di altre fatture false, un’ampia disponibilità ad avvalersi di fatture per operazioni inesistenti al fine di evadere le imposte. Motivo per cui i giudici di merito avevano ritenuto che pena detentiva fosse adeguata, mentre la sola sanzione pecuniaria non avrebbe esplicato alcuna efficacia deterrente.


Fonte: Agenzia Entrate

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