Non spetta il rimborso dell'Iva nell'ipotesi in cui l'Amministrazione finanziaria dimostri la simulazione di operazioni di acquisto e di vendita, contestualmente all'utilizzo di soggetti giuridici di comodo, finalizzate alla creazione di una imposta da rimborsare, a nulla rilevando l'assoluzione del legale rappresentante, in sede penale, laddove le risultanze del predetto processo, indirettamente, confermino la fittizietà delle operazioni contestate.
Questo, in sintesi, il contenuto della sentenza n. 116/33/2009, della Commissione tributaria provinciale di Roma.

Il fatto e l'indagine - Tra le attività istruttorie dell'Agenzia delle Entrate, assume particolare rilevanza il controllo delle richieste di rimborso dell'Iva, che viene effettuato, di norma, con verifiche mirate brevi, finalizzate a riscontrare in tempi rapidi la sussistenza dei presupposti giuridici e fattuali per l'erogazione del rimborso, con particolare riferimento all'esistenza e alla fondatezza delle operazioni documentate.

La controversia in esame consegue a una verifica fiscale eseguita da un ufficio dell'Agenzia, originata da una richiesta di rimborso Iva presentata da una società. Nel caso in questione, già dalle prime indagini, i funzionari verificatori avevano rilevato numerosi elementi di incongruenza, tra cui l'inesistenza, presso la sede legale, della quasi totalità della documentazione contabile e fiscale, e l'ingiustificata localizzazione della sede operativa della società al di fuori della città di Roma, ove insisteva la sede legale.

Le circostanze descritte rendevano necessario un supplemento di verifica e, pertanto, si procedeva a un controllo fiscale generale. La società, che aveva iniziato l'attività nell'anno di imposta 2002, risultava regolarmente iscritta nel registro delle imprese, e aveva, quale oggetto prevalente dell'attività, il commercio all'ingrosso e al minuto di materiale odontotecnico, che veniva effettuato prevalentemente attraverso "operazioni intracomunitarie". In pratica, i beni commercializzati venivano acquistati in Italia (operazione interna, imponibile ai fini dell'Iva), con conseguente diritto alla detrazione dell'imposta assolta, e successivamente venivano rivenduti al di fuori del territorio dello Stato, ma all'interno dell'Unione europea, con conseguente mancata applicazione dell'Iva (cessioni intracomunitarie non imponibili - ex articolo 41 del Dl 331/1993). Il risultato di tutto il meccanismo era l'emersione di un cospicuo credito di imposta che aveva dato luogo alla richiesta di rimborso.

Le indagini eseguite, tuttavia, consentivano di appurare che la richiesta di rimborso era riferita a operazioni inesistenti, sia oggettivamente sia soggettivamente. Conseguentemente, l'ufficio emetteva un processo verbale di constatazione con cui, da un lato veniva negato il rimborso Iva richiesto, dall'altro venivano recuperate a tassazione le maggiori imposte conseguenti, oltre all'applicazione delle sanzioni.

La verifica in questione comportava anche la denuncia del legale rappresentante all'autorità giudiziaria, al fine di valutare la sussistenza delle violazioni di cui all'articolo 2 del Dlgs 74/2000, secondo il quale "E' punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque, al fine di evadere le imposte sul reddito o sul valore aggiunto, avvalendosi di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte, elementi passivi fittizi". Sulla base delle predette risultanze, l'ufficio finanziario emetteva un successivo avviso di accertamento, oggetto della controversia all'esame della Commissione tributaria.

Gli indicatori della simulazione - Gli elementi di seguito indicati consentivano di provare l'inesistenza delle operazioni.

1. Il carattere cartolare (inesistenza soggettiva) della società verificata - L'inesistenza, presso la sede legale, della documentazione relativa alla società, dichiaratamente tenuta presso altro studio sito in altra città, la mancata produzione dell'attestazione ex articolo 52, comma 10 del Dpr 633/1972 (tenuta delle scritture contabili presso terzi), la successiva produzione, in seguito alla richiesta dei verificatori, di documentazione contabile e fiscale incompleta, l'inesistenza di alcuna attività operativa presso la sede legale, che rappresentava una mera domiciliazione. I rappresentanti della società dichiaravano l'esistenza di una sede operativa al di fuori della città di Roma, giustificando la presenza sul territorio della capitale con la necessità di "conquistare" nuovi mercati, ma, di fatto, non vi era nessun plausibile motivo della localizzazione a Roma, né per le operazioni di acquisto, né di vendita, né per altre attività di promozione, commerciali o amministrative.

2. L'inesistenza oggettiva delle operazioni di acquisto - Elementi probanti l'inesistenza delle operazioni di acquisto, riscontrati dai verificatori, sono stati:
•l'assenza delle uscite di cassa o di c/c bancario per il pagamento degli acquisti documentati, le operazioni erano regolamentate attraverso compensazioni di debiti/crediti con altre società del gruppo, di cui è stata però accertata l'ulteriore inesistenza
•la mancata effettuazione di versamenti Iva da parte della società fornitrice
•l'indimostrato trasferimento fisico dei beni commercializzati, privo di qualsiasi documentazione di supporto.
Dalla combinazione dei punti sopra evidenziati con l'inesistenza soggettiva della società cedente i beni, di cui si dirà appresso, è emersa con chiara evidenza l'insussistenza delle operazioni di acquisto da parte della società verificata.

3. L'inesistenza soggettiva della società cedente dei beni - L'indagine incrociata eseguita nei confronti della società italiana, che avrebbe dovuto cedere i beni alla verificata, ha permesso di riscontrare che si trattava di una Srl unipersonale di recentissima trasformazione, successivamente, e in brevissimo tempo, posta in liquidazione, con amministratore e socio unico (poi liquidatore), soggetto estero irreperibile (tipico esempio di cosiddetta "testa di legno"). Inoltre, il periodo di vita utile della società cedente era coinciso con la "creazione" del credito Iva della società sottoposta a verifica ed era terminato con celerità.

4. L'inesistenza oggettiva delle cessioni intracomunitarie - Dall'indagine eseguita al fine di riscontrare l'effettività delle cessioni intracomunitarie, è emerso che gli acquisti di apparecchiature dentistiche sarebbero stati destinati alla rivendita nei confronti di una società olandese. Le predette vendite sono state effettuate senza applicazione dell'imposta, perché cessioni intracomunitarie non imponibili. Del pari, è mancata la dimostrazione del trasferimento fisico della merce: dalla documentazione in possesso della società verificata si è rilevata l'assenza di qualsivoglia documento di trasporto idoneo a documentare l'uscita dei beni dal territorio italiano, condizione necessaria alla realizzazione delle operazioni intracomunitarie ai fini della non imponibilità Iva. La società verificata non è stata in grado di fornire i nominativi delle persone fisiche che materialmente hanno effettuato le prestazioni fatturate, né di esibire la documentazione, anche contabile, relativa alle stesse prestazioni. È emersa l'assenza di pagamenti per le cessioni in esame, regolamentati anch'essi attraverso partite di compensazione.

5. L'inesistenza soggettiva della società comunitaria cessionaria dei beni - È poi risultato che la società olandese (cessionaria) aveva iniziato l'attività nel febbraio 2002 e chiuso i battenti nel mese di aprile dello stesso anno, dunque ha avuto solo due mesi di vita utile. Quest'ultimo dato, oltre a essere, ex se, un indicatore dell'inesistenza soggettiva del cessionario intracomunitario e oggettiva delle operazioni verificate, consentiva di evidenziare anche alcune incongruenze contabili, quali l'emissione di fatture di cessione, da parte della società verificata, in data successiva a quella di cessazione dell'attività da parte dell'acquirente intracomunitario. L'ulteriore verifica dei dati anagrafici e l'indagine eseguita presso il soggetto estero ha permesso di riscontrare che la società cessionaria, residente in Olanda, aveva solo preso in locazione degli uffici ed era sparita nel volgere di breve tempo senza lasciare traccia. Infine, la maggioranza dei pagamenti tra le società coinvolte era avvenuta per compensazione, tra soggetti irreperibili e per movimentazioni fisiche di merci assenti.

In sostanza, l'intero meccanismo in esame, e tutte le incongruenze descritte conducevano alla conclusione che la società verificata era stata costituita all'unico fraudolento scopo di ottenere un illecito rimborso Iva.

Gli esiti del contenzioso tributario - Con ricorso, la società impugnava l'avviso di accertamento, sostenendo l'effettività delle operazioni contestate, sia in relazione all'acquisto del materiale odontoiatrico sia riguardo alla sua successiva rivendita al cliente estero, e ribadiva inoltre che i pagamenti in esame erano avvenuti per compensazione. La società affermava poi che, per effetto del principio di neutralità dell'Iva, il diritto di detrazione dell'imposta doveva essere accordato al destinatario della fattura persino nell'ipotesi di operazioni inesistenti in quanto l'acquirente verrebbe sanzionato in assenza di una esplicita previsione normativa, e in caso di buona fede a vantaggio del contribuente, anche in assenza di colpa. La società sosteneva altresì che la frode fiscale posta in essere da terzi non escludeva il diritto al rimborso ed evidenziava, a proprio vantaggio, che il Tribunale penale di Roma aveva assolto il legale rappresentante della società, relativamente all'imputazione di utilizzo di fatture per operazioni inesistenti.

L'ufficio controdeduceva, evidenziando l'infondatezza di tutte le eccezioni opposte dalla società, che non era stata in grado di contestare i fatti certi rilevati dai verificatori, i quali avevano dimostrato la simulazione delle operazioni di acquisto e di vendita attraverso la creazione di documentazione scollegata dalla realtà economico aziendale, all'esclusivo scopo di creare in capo alla società verificata un'imposta detraibile fittizia.

La Ctp di Roma, con la sentenza n. 116/33/09, rigettava il ricorso della società, con una motivazione in ordine al rapporto tra procedimento penale e tributario: sotto tale aspetto, i giudici, hanno affermato infatti che "la sentenza penale richiamata dal ricorrente e dallo stesso allegata alla memoria difensiva da ultimo depositata assolve l'imputato con formula piena "perché il fatto non costituisce reato" e, sostanzialmente, per mancanza di prova della riferibilità psicologica del fatto oggetto di contestazione, ritenuto di per sé, almeno in parte provato. Ciò comporta che la materialità dei fatti oggetto di giudizio, così come sommariamente individuati nel capo di imputazione, non solo non è stata smentita nel corso del procedimento penale ma anzi ha nello stesso trovato conferma. Tale essendo lo stato dei fatti, non appare al collegio sostenibile la tesi della sussistenza, comunque, del diritto al rimborso di un'imposta che non è stata effettivamente versata all'erario, anche se la frode non è riconducibile direttamente al richiedente: e ciò, a prescindere dal margine di incertezza circa l'effettiva sussistenza delle suddette transazioni commerciali, che la sentenza non fuga ma anzi, almeno in parte, conferma". La sentenza ha dunque rigettato in toto il ricorso, anche in ordine alle maggiori imposte accertate, confermando la validità dell'operato dell'Amministrazione finanziaria.


Fonte: Agenzia Entrate

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