È inammissibile l'istanza con la quale si richiede la concessione della seconda esimente della disciplina cfc se appare volta a dimostrare, piuttosto che il reddito della collegata non è localizzato in un Paese a fiscalità privilegiata, che il Paese blak list non può essere "propriamente paragonabile" a un paradiso fiscale in quanto l'aliquota applicata alle società residenti è superiore al 27 per cento.

Questa la valutazione espressa dall'agenzia delle Entrate con la risoluzione n. 262/E del 21 settembre in merito all'interpello di una società residente che detiene una partecipazione di collegamento in una società malese. La società estera è pienamente operativa e svolge un'attività di carattere industriale.

L'istante, tuttavia, chiede la disapplicazione dell'articolo 168 del Tuir in base alla lettera b), comma 5 dell'articolo 167, ritenendo che la partecipata possegga i requisiti della "seconda esimente". Per il contribuente, in base ai chiarimenti forniti dall'Agenzia con la risoluzione n. 63/2007, l'assoggettamento dell'utile complessivo lordo prodotto dalla partecipata estera a un'aliquota effettiva pari almeno al 27% è condizione sufficiente per ottenere la disapplicazione della normativa cfc.

Questa condizione, nel caso in esame, risulterebbe verificata in quanto l'aliquota ordinariamente gravante sul reddito prodotto in Malesia dalla partecipata estera sarebbe pari a circa il 28 per cento.

Il contribuente, inoltre, ritiene che l'esenzione di cui la partecipata ha beneficiato nel primo anno di attività (1999) sia irrilevante ai fini della risposta dell'Agenzia: si tratterebbe, infatti, di un'esenzione dovuta a un provvedimento generale e straordinario del governo malese che, in ogni caso, non potrebbe più esplicare i suoi effetti in capo al partecipante italiano (gli utili del 1999, infatti, sono stati già interamente utilizzati negli anni pregressi).

I vantaggi della seconda esimente cfc

È interessante sottolineare che, in base a quanto emerge dalla risoluzione, la partecipata è una società operativa e svolge un'attività sicuramente industriale (produzione e commercializzazione di valvole per il settore energetico). Il partecipante, tuttavia, non chiede la disapplicazione della normativa cfc in base alla prima esimente (effettivo svolgimento di un'attività industriale o commerciale), ma in base alla seconda, che richiede la prova, ben più impegnativa, della localizzazione del reddito prodotto dalla partecipata in un Paese diverso da quelli a fiscalità privilegiata.

L'apparente paradosso si spiega con la considerazione che l'investimento in Malesia è effettuato in joint-venture con un imprenditore locale (ciascuno dei due soci, infatti, detiene il 50% del capitale e dei diritti di voto della collegata e ha pari influenza nel Consiglio di amministrazione). L'istante, di conseguenza, non può disporre degli utili prodotti dalla partecipata malese, se questi non sono distribuiti.

In base all'articolo 89, comma 3, del Tuir, tuttavia, i dividendi provenienti da paradisi fiscali concorrono integralmente alla formazione dell'utile del soggetto residente a meno che il percipiente non ottenga la disapplicazione della normativa cfc in base alla seconda esimente prevista dall'articolo 167 del Tuir. In quest'ultimo caso, i dividendi concorrono alla formazione del reddito imponibile della società residente nella misura del 5 per cento. L'ottenimento della disapplicazione in base alla prima esimente è, invece, irrilevante ai fini della detassazione dei dividendi (cfr. circolare n. 28/2006).

Il problema della Malesia

Prima di analizzare la risposta fornita dall'Agenzia, occorre soffermarsi sullo status fiscale della Malesia. Lo Stato asiatico è inserito tra i Paesi elencati nell'articolo 1 della black list, cioè tra i Paesi che sono considerati comunque a fiscalità privilegiata, a prescindere dal regime fiscale concretamente applicabile alle società partecipate. Il caso, pertanto, è diverso da quello di Paesi, quali la Svizzera, che sono considerati a fiscalità privilegiata solo con riferimento a determinati regimi fiscali (per esempio, limitatamente al regime applicabile alle holding).

In linea di principio, dunque, una verifica in ordine alla possibilità di considerare una società esclusa dall'ambito di applicazione della normativa cfc è possibile solo con riferimento alle società localizzate nei Paesi elencati negli articoli 2 e 3 del decreto ministeriale 21 novembre 2001.

Come già ricordato, la black list è contenuta in un decreto del 2001, che non è mai stato modificato. Successivamente all'entrata in vigore del decreto, tuttavia, alcuni dei Paesi ivi elencati hanno attuato riforme fiscali volte a colmare il divario esistente tra la legislazione locale e quella dei Paesi a fiscalità "ordinaria", tra i quali rientra l'Italia. Anche l'Italia, d'altra parte, ha riformato in maniera radicale il proprio sistema di imposizione del reddito societario e ha abbassato significativamente l'aliquota nominale dell'imposta sui redditi delle società. Quest'ultima circostanza non è priva di rilievo: uno dei criteri posti dal Tuir per l'individuazione dei Paesi a fiscalità privilegiata è l'applicazione di un'aliquota "sensibilmente inferiore" a quella applicata in Italia.

Il concetto di livello di tassazione "sensibilmente inferiore", peraltro, è stato quantificato dal Parlamento quale "livello di tassazione che in media si discosti di almeno il 30% dal livello di tassazione medio applicato in Italia". Questa circostanza è chiaramente ricordata nel prologo del Dm 21 novembre 2001. Nonostante nel prologo del decreto venga precisato che la forbice del 30% tra aliquota italiana ed estera è un'indicazione valida "in via di prima attuazione" della normativa cfc, è agevole comprendere perché da più parti l'inclusione nella black list della Malesia, che dichiara oggi un'aliquota sui redditi d'impresa pari al 28%, sia considerata ingiusta o quantomeno, superata.

La risposta dell'agenzia delle Entrate

L'Agenzia ha dichiarato l'istanza inammissibile, in quanto volta sostanzialmente a "disapplicare" l'articolo 1 della black list, anziché l'articolo 168 del Tuir.

Come già evidenziato, infatti, l'unico argomento posto concretamente a sostegno della richiesta di disapplicazione avanzata dal contribuente attiene all'entità del carico fiscale effettivamente gravante in Malesia sul reddito della partecipata.

L'amministrazione, tuttavia, ha chiarito che, quando il Tuir consente la disapplicazione della normativa cfc a seguito della dimostrazione che il reddito della partecipata non è localizzato in un Paese a fiscalità privilegiata, non intende consentire un sindacato sulla "bontà" del regime fiscale concretamente applicabile nel Paese black list. Né si può ritenere che la risoluzione 63/2007 abbia innovato sul punto.

La reale portata della risoluzione 63/2007

Nella risoluzione in esame, in particolare, l'Agenzia chiarisce che l'altezza dell'aliquota effettivamente gravante sul reddito estero non costituisce, di per sé, condizione sufficiente a ottenere la disapplicazione della normativa cfc.

Il richiamo alla risoluzione 63/2007 effettuato dal contribuente, dunque, non è pertinente. Nel caso lì esaminato, infatti, l'altezza dell'aliquota effettivamente gravante sul reddito estero era uno dei fattori che, considerati complessivamente e unitariamente, concorrevano a dimostrare che il reddito della partecipata estera non poteva considerarsi "localizzato" in Paese a fiscalità privilegiata, come richiesto dalla lettera b), comma 5 dell'articolo 167 del Tuir. Determinante era la considerazione che la partecipata estera faceva parte di una catena societaria complessa, lungo la quale il reddito formalmente prodotto nel Paese black list era costretto a risalire prima di arrivare in Italia. Il raggiungimento dell'aliquota del 27% (che nella risoluzione veniva espressamente dichiarata congrua) avveniva, dunque, non in un Paese black list, ma a seguito della distribuzione del reddito in Paesi a fiscalità non privilegiata.

Un'interpretazione diversa della risoluzione n. 63/2007 aprirebbe il varco a un inammissibile sindacato dell'Agenzia in ordine alla legittimità delle scelte effettuate dal legislatore nella predisposizione della black list.

Il rapporto tra la black list e la normativa cfc

La risoluzione in commento contribuisce anche a ricostruire il rapporto esistente tra la black list e la cfc.

Viene ribadito, infatti, che la localizzazione di una partecipata in un Paese menzionato nell'articolo 1 del Dm 21 novembre 2001 costituisce un presupposto di applicazione della normativa cfc, non sindacabile in sede di interpello.

L'interpello disapplicativo previsto dal comma 5 dell'articolo 167, infatti, non può mettere in discussione quella che è la sua stessa premessa di proponibilità e, cioè, la localizzazione della partecipata in uno Stato a fiscalità privilegiata. Qualora la partecipata non fosse localizzata in uno Stato a fiscalità privilegiata, essa sarebbe semplicemente esclusa dalla normativa cfc e, di conseguenza, non potrebbe richiederne la disapplicazione. Ma tutte le società localizzate in uno degli Stati elencati nell'articolo 1 della black list sono, per definizione, incluse nel campo di applicazione dell'articolo 167 del Tuir (e, di conseguenza, dell'articolo 168). Le società che rientrano nel campo di applicazione della normativa cfc, a loro volta, appartengono necessariamente a una delle due categorie ivi disciplinate, cioè società che imputano direttamente il reddito prodotto al soggetto partecipante residente e società che, avendo dimostrato di possedere i requisiti previsti da una delle due esimenti di cui al comma 5 del medesimo articolo, non lo imputano.

La ratio della black list

Di grande rilievo, infine, sono anche le precisazioni fornite in ordine alla ratio della black list. L'errore del contribuente, infatti, è stato quello di ritenere che l'inclusione della Malesia nella black list fosse motivata essenzialmente dal livello di tassazione effettivo applicato in questo Stato e, dunque, non fosse più attuale. Questa tesi, tuttavia, non è sostenibile perché in chiaro contrasto con il dato normativo.

Come significativamente evidenziato dal testo del comma 4 dell'articolo 167, la black list è stata redatta in esito alla valutazione di una pluralità di fattori, tra i quali rileva non solo l'aliquota effettivamente applicabile alle società residenti nel Paese considerato, ma anche la sussistenza di un completo ed efficiente scambio di informazioni con l'Amministrazione finanziaria italiana, nonché altri criteri equivalenti.

I Paesi black list, in sostanza, sono Paesi che l'Italia non ritiene "affidabili", in esito a una valutazione complessiva del loro sistema fiscale.

Se anche il regime ordinariamente applicabile agli utili societari malesi potesse considerarsi assimilabile, per principi e modalità di funzionamento, a quello italiano, un ripensamento dell'inclusione della Malesia nella black list dovrebbe dunque tenere conto della complessità dei regimi derogatori o agevolativi ivi vigenti.

Significativa, in questo contesto, appare la circostanza, ricordata dalla medesima contribuente, che nel 1999 ogni reddito prodotto in Malesia è stato esentato da qualsivoglia imposta diretta, in base a un provvedimento discrezionale del governo locale. E non vi è chi non veda che l'impossibilità di fare affidamento sull'applicazione costante e coerente delle imposte legislativamente previste potrebbe essere uno di quei "criteri equivalenti" all'altezza dell'aliquota e alla sussistenza di un adeguato scambio di informazioni che sono stati valutati al momento di decidere l'inclusione della Malesia della black list.

In ogni caso, la risoluzione in commento lascia intendere che l'unica via percorribile per modificare lo status fiscale della Malesia nell'ambito dell'ordinamento tributario italiano è quello legislativo: lo stesso decreto 21 novembre 2001, peraltro, ricorda in apertura che "la lista degli Stati e dei territori aventi un regime fiscale privilegiato ai fini del citato art. 127-bis del testo unico delle imposte sui redditi [ora 167] è comunque suscettibile di modifiche ed integrazioni sulla base della eventuale acquisizione di ulteriori elementi conoscitivi relativi alla legislazione fiscale degli Stati esteri".

0 commenti:

 
Top