L’iscrizione di ipoteca da parte di Equitalia senza preventiva comunicazione è nulla.
In attesa che le Sezioni Unite si pronuncino sull’obbligo del contraddittorio negli accertamenti a “tavolino”, analizziamo un’altra fondamentale pronuncia delle stesse S.U. della Cassazione, quanto mai attuale in relazione ad alcuni fondamentali principi di diritto ivi affermati, concernente la nullità dell’iscrizione ipotecaria richiesta da Equitalia senza preventiva comunicazione.
Vicenda
Il contribuente proponeva ricorso in Commissione Tributaria, impugnando la comunicazione d’iscrizione ipotecaria, emessa a seguito di un mancato pagamento di alcune cartelle esattoriali. La Commissione adita respingeva l’istanza di sospensione e rigettava il ricorso. Detta decisione veniva confermata anche in appello, dalla Commissione Tributaria Regionale della Campania. A questo punto, il contribuente ricorreva per Cassazione per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione e per falsa applicazione della legge. La Cassazione (Sesta Sezione Civile – Sezione Tributaria), con ordinanza 18007 del 24.07.2013, rimetteva al Primo Presidente la valutazione circa l’opportunità di devolvere alle Sezioni Unite la questione:
“Se il concessionario alla riscossione non sia tenuto, ove sia decorso un anno dalla notifica della cartella di pagamento, prima di procedere all’iscrizione di ipoteca, a notificare al debitore un avviso che contenga l’intimazione ad adempiere entro cinque giorni l’obbligo risultante dal ruolo, e ciò a prescindere dall’entrata in vigore del disposto normativo (di cui alla Legge 106/2011) che prevede che l’agente della riscossione è tenuto a notificare al proprietario dell’immobile una comunicazione preventiva contenente l’avviso che, in mancanza del pagamento delle somme dovute entro il termine di trenta giorni, sarà iscritta l’ipoteca”.
Decisione
Con sentenza 19667/2014 (depositata il 18.09.2014), le Sezioni Unite si pronunciano in favore del contribuente dichiarando che Equitalia, prima di poter iscrivere l’ipoteca sui beni immobili del contribuente, deve dargliene comunicazione, concedendogli un termine minimo di trenta giorni, affinché possa essere legittimamente esercitato il diritto di difesa. L’iscrizione di ipoteca, in difetto di tale comunicazione è nulla, in ragione della violazione dell’obbligo che incombe sull’amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, prima dell’adozione di un atto o provvedimento che abbia la capacità di incidere negativamente, determinando una lesione, sui diritti e sugli interessi del contribuente medesimo.
Osservazioni
Pare doveroso focalizzare l’attenzione sui principi giuridici di diritto che vengono espressi dalle Sezioni Unite nella sentenza in argomento.
Il principale elemento che, come detto in premessa, pare oltremodo attuale in considerazione dell’odierna questione afferente l’obbligo del contraddittorio preventivo negli accertamenti c. d. a “tavolino”, si ritrova nell’enunciato che segue:
“Può affermarsi il seguente principio di diritto: Anche nel regime antecedente l’entrata in vigore del comma 2-bis, dell’art. 77, DPR 602/1973, introdotto con DL 70/2011, l’amministrazione prima di iscrivere ipoteca, deve comunicare al contribuente che procederà alla predetta iscrizione sui suoi beni immobili, concedendo a quest’ultimo un termine – che, per coerenza con altre analoghe previsioni normative presenti nel sistema, può essere fissato in trenta giorni – perché egli possa esercitare il proprio diritto di difesa, presentando opportune osservazioni, o provveda al pagamento del dovuto. L’iscrizione di ipoteca non preceduta dalla comunicazione al contribuente è nulla, in ragione della violazione dell’obbligo che incombe all’amministrazione di attivare il “contraddittorio endoprocedimentale”, mediante la preventiva comunicazione al contribuente della prevista adozione di un atto o provvedimento che abbia la capacità di incidere negativamente, determinandone una lesione, sui diritti e sugli interessi del contribuente medesimo.”
A parere della S. C., dunque, prima di adottare un atto che incida negativamente sugli interessi del contribuente, è obbligatorio instaurare il preventivo contraddittorio endoprocedimentale, a pena di nullità; e ciò, si badi bene, a prescindere dal fatto che sia previsto espressamente da una norma positiva.
Per giungere a detta conclusione, le Sezioni Unite espongono in premessa taluni richiami di notevole importanza.
Innanzitutto, cade l’obiezione concernente la specialità della norma tributaria, sistematicamente richiamata da svariate altre pronunce di Legittimità, posto che la Legge 241/1990 non esclude i procedimenti tributari dagli istituti partecipativi e rinvia alle norme speciali per detti procedimenti:
“Laddove si rifletta sul fatto che lo statuto del contribuente è costituito da un complesso di norme la cui precipua funzione è quella di improntare l’attività dell’amministrazione finanziaria alle regole dell’efficienza e della trasparenza, nonché quella di assicurare l’effettività della tutela del contribuente nella fase del procedimento tributario, è agevole vedere che si tratta di norme che sostanzialmente riproducono, con riferimento ad uno speciale procedimento amministrativo, alcune delle fondamentali regole dettate dalla legge n. 241 del 1990 sul procedimento in generale.
E così tra le norme dello Statuto:
– l’art. 5, che obbliga l’amministrazione a promuovere la conoscenza da parte del contribuente delle disposizioni legislative in materia tributaria per l’evidente ragione del notevole numero di tali disposizioni e per la spesso imprevedibile mutevolezza delle medesime;
– l’art. 6, che obbliga l’amministrazione ad assicurare l’effettiva conoscenza degli atti da parte del destinatario, mediante la comunicazione nel luogo di effettivo domicilio e a informare il contribuente «di ogni fatto o circostanza a sua conoscenza dai quali possa derivare il mancato riconoscimento di un credito ovvero l’irrogazione di una sanzione, richiedendogli di integrare o correggere gli atti prodotti che impediscono il riconoscimento, seppure parziale, di un credito»; la norma obbliga altresì l’amministrazione a far sì che i modelli di dichiarazione siano messi tempestivamente a disposizione del contribuente e siano redatti in un linguaggio chiaro e comprensibile anche per chi è sfornito di conoscenze tecniche; inoltre è previsto che «prima di procedere alle iscrizioni a ruolo derivanti dalla liquidazione di tributi risultanti da dichiarazioni, qualora sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, l’amministrazione finanziaria deve invitare il contribuente, a mezzo del servizio postale o con mezzi telematici, a fornire i chiarimenti necessari o a produrre i documenti mancanti entro un termine congruo e comunque non inferiore a trenta giorni dalla ricezione della richiesta»;
– l’art. 7, che sancisce l’obbligo della motivazione degli atti, secondo il principio codificato dall’art. 3 della legge n. 241 del 1990;
– l’art. 10, comma 1, che fissa il fondamentale principio secondo il quale «i rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede», che ribadisce in questa forma quella garanzia di decisione partecipata che costituisce la ratio della previsione normativa espressa dall’art. 7 della legge n. 241 del 1990;
– l’art. 12, comma 2, a norma del quale «quando viene iniziata la verifica, il contribuente ha diritto di essere informato delle ragioni che l’abbiano giustificata e dell’oggetto che la riguarda, della facoltà di farsi assistere da un professionista abilitato alla difesa dinanzi agli organi di giustizia tributaria, nonché dei diritti e degli obblighi che vanno riconosciuti al contribuente in occasione delle verifiche».
Da questo complesso di norme emerge chiaramente che la pretesa tributaria trova legittimità nella formazione procedimentalizzata di una “decisione partecipata” mediante la promozione del contraddittorio (che sostanzia il principio di leale collaborazione) tra amministrazione e contribuente (anche) nella “fase precontenziosa” o “endoprocedimentale”, al cui ordinato ed efficace sviluppo è funzionale il rispetto dell’obbligo di comunicazione degli atti imponibili. Il diritto al contraddittorio, ossia il diritto del destinatario del provvedimento ad essere sentito prima dell’emanazione di questo, realizza l’inalienabile diritto di difesa del cittadino, presidiato dall’art. 24 Cost., e il buon andamento dell’amministrazione, presidiato dall’art. 97 Cost.”
Le Sezioni Unite, poi, si premurano anche di richiamare delle importantissime precedenti pronunce, al riguardo:
“La sentenza n. 16412 del 2007 delle Sezioni Unite, a proposito dell’avviso di mora non preceduto dalla notifica della cartella, la quale rileva che la mancata notificazione della cartella di pagamento comporta un vizio della sequenza procedimentale dettata dalla legge, che consente al contribuente di impugnare l’avviso, deducendone la nullità per omessa notifica dell’atto presupposto;
la sentenza n. 26635 del 2009, sempre delle Sezioni Unite, in materia di accertamento mediante standard (o studi di settore), secondo la quale il contraddittorio endoprocedimentale deve ritenersi un elemento essenziale e imprescindibile (anche in assenza di una espressa previsione normativa) del giusto procedimento che legittima l’azione amministrativa;
la sentenza n. 18184 del 2013, ancora delle Sezioni Unite, con la quale è stato affermato che «l’art. 12, comma 7, della legge 27 luglio 2000, n. 212 deve essere interpretato nel senso che l’inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento – termine decorrente dal rilascio al contribuente, nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni – determina di per sé, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, l’illegittimità dell’atto impositivo emesso ante tempus, poiché detto termine è posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio endoprocedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva”.
Sulla base dei principi qui ribaditi, tramite richiamo a precedente pari Legittimità, sembrerebbe di poter azzardare come, anche l’attuale controversa querelle attinente al preventivo contraddittorio endoprocedimentale relativamente agli accertamenti a “tavolino”, dovrebbe inevitabilmente concludersi per l’obbligatorietà dello stesso, contrariamente a quanto sempre asserito dall’Agenzia delle Entrate. Ma l’esperienza insegna che è meglio mantenersi cauti e attendere la decisione delle Sezioni Unite.
Ritornando al thema decidendum, la pronuncia richiama pure la sovraordinata normativa comunitaria.
“Il rispetto dei diritti della difesa e del diritto che ne deriva, per ogni persona, di essere sentita prima dell’adozione di qualsiasi decisione che possa incidere in modo negativo sui suoi interessi, costituisce un principio fondamentale del diritto dell’Unione, come afferma – ricordando la propria precedente sentenza del 18 dicembre 2008, in causa C-349/07 – la Corte di Giustizia nella sua recentissima sentenza del 3 luglio 2014 in cause riunite C-129/13 e C-130/13.
«Il diritto al contraddittorio in qualsiasi procedimento» afferma la Corte di Giustizia, «è attualmente sancito non solo negli articoli 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che garantiscono il rispetto dei diritti della difesa nonché il diritto ad un processo equo in qualsiasi procedimento giurisdizionale, bensì anche nell’articolo 41 di quest’ultima, il quale garantisce il diritto ad una buona amministrazione. Il paragrafo 2 del citato articolo 41 prevede che tale diritto a una buona amministrazione comporta, in particolare, il diritto di ogni individuo di essere ascoltato prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale lesi­ vo». Conclude la Corte che «in forza di tale principio, che trova applicazione ogniqualvolta l’amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto ad esso lesivo, i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la sua decisione», mediante una previa comunicazione del provvedimento che sarà adottato, con la fissazione di un termine per presentare eventuali difese od osservazioni . «Tale obbligo», ad avviso della Corte, «incombe sulle amministrazioni degli Stati membri ogniqualvolta esse adottano decisioni che rientrano nella sfera d’applicazione del diritto dell’Unione, quand’anche la normativa comunitaria applicabile non preveda espressamente siffatta formalità”.
Infine, per dovere di completezza espositiva, citiamo un ulteriore principio generale di diritto ribadito dalle Sezioni Unite nella sentenza in esame, seppure lo stesso, posto che è già stato più volte oggetto di svariate – anche recenti – pronunce della Cassazione, dovrebbe essere ormai pienamente assodato: le sentenze d’appello non possono mai limitarsi a richiamare le pronunce di Primo Grado, ma debbono riportarne sempre il contenuto motivazionale.
“Fondato è il motivo, con il quale la parte ricorrente censura la sentenza impugnata per aver «respinto l’appello, risolvendo la motivazione in un mero rinvio alla decisione del giudice di prime cure, senza riportarne, neanche in maniera sintetica, il contenuto motivazionale». Invero la sentenza impugnata argomenta la propria decisione mediante un apodittico rinvio alla sentenza del primo giudice, limitandosi ad affermare: «i motivi di impugnazione della sentenza di primo grado, addotti dall’appellante, sono gli stessi che i giudici di prime cure hanno già esaminato e rigettato con analitiche motivazioni: sotto questo aspetto, pertanto, l’appello, essendo la riproposizione del ricorso di primo grado, risulterebbe improponibile». Si tratta di una sentenza nulla alla luce del principio più volte affermato da questa Corte secondo cui: « In tema di processo tributario, è nulla, per violazione degli artt. 36 e 61 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, nonché dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ., la sentenza della commissione tributaria regionale completamente carente dell’illustrazione delle critiche mosse dall’appellante alla statuizione di primo grado e delle considerazioni che hanno indotto la commissione a disattenderle e che si sia limitata a motivare per relationem alla sentenza impugnata mediante la mera adesione ad essa, atteso che, in tal modo, resta impossibile l’individuazione del thema decidendum e delle ragioni poste a fondamento del dispositivo e non può ritenersi che la condivisione della motivazione impugnata sia stata raggiunta attraverso l’esame e la valutazione dell’infondatezza dei motivi di gravame» (v. Cass. n. 28113 del 2013).”
A conclusione, ritorniamo brevemente all’oggetto principale della causa (ipoteca immobiliare), per riepilogare succintamente la norma (a beneficio di tutti i lettori), ricordando che il divieto di espropriazione dell’abitazione principale opera solo in presenza di quattro condizioni:
1) deve trattarsi dell’unico immobile posseduto dal debitore;
2) il fabbricato deve avere destinazione catastale abitativa (se il debitore abita in un immobile a uso ufficio, la copertura non opera);
3) non deve essere una casa di lusso, a prescindere dalla categoria catastale ufficiale, né appartenere alle categorie A8 (ville) o A9 (castelli);
4) il debitore deve avere residenza anagrafica nell’unità in esame.
Ovviamente, Equitalia potrà comunque iscrivere l’ipoteca, la quale sarà una valida causa di prelazione nell’eventuale distribuzione del denaro derivante dalla successiva ipotetica asta, nell’ipotesi in cui qualche altro creditore metta in moto il procedimento di espropriazione. Il divieto di espropriazione, infatti, non esclude che l’abitazione principale sia ipotecabile in presenza di un debito a ruolo superiore a 20.000 euro.
Per altro verso, il limite minimo di importo scaduto, in presenza del quale l’espropriazione è ammessa, risulta essere pari a 120.000 euro; ovviamente, sempre che manchino le quattro condizioni appena sopra menzionate.
Sarà, infine, necessario che l’espropriazione sia preceduta dal decorso di sei mesi dall’iscrizione dell’ipoteca.

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