Con la sentenza 12169 del 26 maggio 2009, la Corte di cassazione, intervenendo su una problematica sorta in tema di successione mortis causa circa il trattamento fiscale dei beni immobili alienati durante gli ultimi sei mesi di vita del de cuius, accoglie il ricorso dell'Amministrazione finanziaria, stabilendo che deve considerarsi compreso nell'attivo ereditario il valore dei beni o dei diritti trasferiti a terzi, a titolo oneroso, nel semestre anteriore alla morte del dante causa, e non già il corrispettivo pattuito o ricavato dal relativo negozio traslativo.

Il fatto

Con contestuale atto di cessione e vitalizio una contribuente aveva ceduto a due nipoti, in parti uguali pro indiviso, la nuda proprietà di determinati immobili, riservandosi l'usufrutto sugli stessi vita natural durante, mentre le acquirenti, a fronte di detta cessione, si obbligavano a corrispondere alla venditrice una rendita annua, oltre che a provvedere, vita natural durante, alla sua assistenza morale e materiale.

Alla morte di quest'ultima, il legatario presentava dichiarazione di successione esponendovi, tra l'altro, le vendite effettuate dal de cuius negli ultimi sei mesi di vita, le quali coincidevano esattamente con il valore dei beni oggetto dell'atto di cessione e vitalizio.

Successivamente l'ufficio finanziario constatava nell'esame della dichiarazione di successione la mancata tassazione del valore delle vendite effettuate negli ultimi sei mesi di vita del defunto, notificando alle acquirenti apposito avviso di liquidazione in cui veniva ripresa a tassazione l'omissione di detti cespiti.

Ricorrevano le contribuenti davanti la competente Commissione tributaria provinciale, contestando l'atto impositivo sotto vari profili di illegittimità (centralmente, violazione dell'articolo 10 del Dlgs 346/1990, in quanto l'atto impositivo, non solo realizzerebbe un'inammissibile e illegittima duplicazione di imposta, ma colliderebbe anche con principi di rango costituzionale), oltre che per l'infondatezza nel merito. Il ricorso non veniva accolto.

Il conseguente appello veniva rigettato dalla Commissione tributaria regionale, osservando:

che i beni oggetto dell'atto di vendita vanno considerati compresi nell'attivo ereditario poiché soggetti a imposta ed alienati a titolo oneroso nel semestre anteriore al decesso della venditrice, non risultando l'eventuale ricorrenza nella fattispecie di alcuna delle ipotesi di deduzione previste nell'articolo 10 del Dlgs 346/1990 (quali le somme pagate all'Erario a titolo di imposte per l'atto di trasferimento)

che la doglianza relativa alla violazione dello stesso articolo 10, sotto il profilo di omessa detrazione delle imposte versate all'Erario sull'atto di trasferimento di beni immobili da ricomprendere nell'attivo ereditario della venditrice, risulta infondato e non realizza la eccepita duplicazione del tributo, perché le imposte relative al trasferimento e quelle inerenti all'apertura della successione si fondano su titoli diversi, afferenti a diverse e distinte capacità contributive, ciascuna autonomamente disciplinata.

Il successivo ricorso per cassazione si articolava su due motivi, dei quali in questa sede si esamina soltanto il primo.

Il gravame è strutturato sulla contestazione della ricomprensione nell'attivo ereditario della venditrice dei beni oggetto dell'atto di cessione e vitalizio, affermata dal giudice di appello, in violazione dei commi 1 e 3 dell'articolo 10 del Dlgs 346/1990, nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.

Sostanzialmente, il giudice del riesame non avrebbe tenuto presente che una rigorosa interpretazione logica della norma censurata avrebbe dovuto portare a ritenere che parte integrante dell'asse ereditario non è il bene oggetto di trasferimento, perché non ne faceva più parte alla data di apertura della successione, ma "i corrispettivi" del trasferimento medesimo, se e nei limiti della loro effettiva percezione, da parte del de cuius, prima della sua morte. Ciò si desumerebbe dalla lettera f) del comma 3 dell'articolo 10 laddove, dall'attivo della successione, ammette la deducibilità delle spese di mantenimento e delle spese mediche e chirurgiche, poiché diversamente argomentando, si perverrebbe alla conclusione che lo stesso legislatore abbia inteso sottoporre a imposizione il valore dei beni e diritti trasferiti ante mortem e, al tempo stesso, i corrispettivi derivanti da dette alienazioni, realizzando così una doppia imposizione in palese vulnerabilità dei parametri costituzionali di cui agli articoli 3 e 53 della Costituzione.

Inoltre, nell'impugnazione si sostiene che nel caso di specie si realizzerebbe in capo alle ricorrenti una situazione di coincidenza tra (a) acquirenti nel semestre considerato ed (b) eredi, con conseguente doppia imposizione per avere una prima volta esse stesse corrisposto l'imposta di registro sui beni oggetto della transazione e una seconda volta sui beni medesimi soggetti a imposta progressiva di successione. D'altronde, secondo le ricorrenti, siccome tra le deduzioni ammesse dall'articolo 10 non figurano quelle richiese, tale circostanza confermerebbe che il legislatore, quando si è riferito ai trasferimenti a titolo oneroso effettuati dal de cuius nel semestre anteriore alla morte ha tenuto presente, come parte dell'asse ereditario, "non il valore dei beni ceduti bensì il corrispettivo della loro alienazione".

Motivi della decisione

Con la pronuncia 12169/2009, la Corte di cassazione, confermando le conclusioni dei giudizi di merito, ritiene infondato il ricorso, argomentando sul piano normativo che l'articolo 10 del Dlgs 346/1990, relativo ai beni alienati negli ultimi sei mesi di vita del de cuius (nel testo vigente ratione temporis, in quanto abrogato dall'articolo 69, comma 1, lett. d), della legge 342/200), disponeva espressamente:

che si considerano compresi nell'attivo ereditario i beni e i diritti soggetti a imposta alienati a titolo oneroso dal defunto nell'ultimo semestre di vita (primo comma)

che dal valore dei detti beni e diritti, determinato secondo le disposizioni degli articoli 14 e seguenti del Dlgs 346, si deduce, tra l'altro, l'ammontare delle somme riscosse o dei crediti sorti in dipendenza dell'alienazione, a condizione che siano indicati nella dichiarazione della successione (terzo comma, lettera a).

Ma, secondo la Corte di cassazione, logica e tenore letterale di tale previsione - che valorizza soltanto i beni e i diritti "alienati" e non i corrispettivi, mai comunque i "corrispettivi effettivamente percepiti" - fanno ritenere infondata la tesi delle ricorrenti esposta nel rilievo, in considerazione che con disposizione specifica in tema di imposta sulle successioni, l'articolo 14 del Dlgs 346/1990 prescrive, alla lettera a), di tener conto a tal fine sempre e soltanto del "valore venale in comune commercio alla data di apertura della successione" dei beni. Tale trama argomentativa, del resto, si pone anche in sintonia con il tributo di registro, ove il legislatore ha attribuito rilievo preponderante al "valore venale dei beni e dei crediti" (cfr articolo 51 del Dpr 131/1986), mentre il "corrispettivo" assume rilevo marginale (vedi articolo 72 del Dpr 131/1986).

L'analisi ermeneutica condotta sulla normativa "allargata" di settore induce quindi la Cassazione a considerare, contrariamente all'assunto delle ricorrenti, che con presunzione legislativa iuris et de iure devono ritenersi compresi nell'attivo ereditario il valore dei beni o dei diritti, naturalmente se soggetti all'imposta, trasferiti a terzi a titolo oneroso nel semestre anteriore alla morte del dante causa, e non già il corrispettivo pattuito o ricavato dall'afferente negozio traslativo, poiché gli effetti dell'articolo 10 sono quelli di impedire l'uscita dal patrimonio del de cuius di beni o diritti posti in essere con atti degli ultimi sei mesi di vita e con conseguente - spesso fittizio - depauperamento dell'attivo ereditario.

Ancorché la disposizione fosse applicabile in via generale, è evidente che si trattava di una norma a scopo antielusivo, volta a neutralizzare quegli espedienti tesi a ridurre la consistenza dell'asse ereditario attraverso atti di alienazione dei beni del defunto, con effetti recuperatori (l'attivo ereditario viene reintegrato del valore dei beni ceduti) ma non restitutori. Reintegrare il medesimo patrimonio con i beni alienati nel periodo interessato significa, quindi, attribuire all'Erario il diritto di percepire l'imposta di successione su una base imponibile di maggior valore, come più volte puntualizzato dalla Corte costituzionale (sentenze 982/1988 e 137/1997).

Conclusioni

In conclusione, con la sentenza 12169/2009, la Cassazione conferma il principio (già enunciato nella sentenza 5475/2008) dell'irrilevanza giuridica, ai fini dell'imposta di successione, del "prezzo effettivamente incassato" dall'alienazione rispetto al "valore da assegnare ai beni venduti, secondo la specifica disciplina fiscale", perché diversamente opinando risulterebbe leso il principio di inclusione nell'attivo ereditario, secondo il loro proprio valore, di beni e diritti venduti nel semestre precedente l'apertura della successione.

Peraltro, la Suprema corte non manca di rilevare che, in base all'assunto esegetico raggiunto nell'esame del primo motivo del ricorso circa la ratio legis del valore del bene e non del corrispettivo eventualmente minore realizzato dalla sua alienazione, l'articolo 10 del Dlgs 346/1990 non configge con nessuno dei parametri costituzionali (capacità contributiva, eguaglianza e ragionevolezza) di cui agli articoli 3 e 53 della Costituzione, invocati dalle ricorrenti, in considerazione che è già stata accertata dalla Corte costituzionale sia la ragionevolezza della norma de qua sia la sua idoneità a evidenziare e colpire una sicura manifestazione di capacità contributiva (sentenze 982/1988 e 137/1997).

La denuncia di successione

La denuncia di successione ha una valenza meramente fiscale, nel senso che trattasi di una dichiarazione espressa che permette all'Amministrazione finanziaria di prendere atto del valore dei beni facenti parte dell'asse ereditario, ed è prevista dagli articoli 27 e seguenti del Dlgs 346/1990, in base al quale deve essere presentata presso l'ufficio dell'agenzia delle Entrate competente entro dodici mesi dalla data di apertura della successione (termine da ultimo modificato dall'articolo 1, comma 79, della legge 296/2006).

Come è noto, l'imposta sulle successioni e donazioni era stata soppressa dall'articolo 13, comma 1, della legge 383/2001 ed è stata reintrodotta dall'articolo 2, commi da 47 a 54, del Dl 262/2006. In ogni caso, anche dopo l'abrogazione, la dichiarazione di successione doveva essere ugualmente presentata laddove nell'asse ereditario fossero inclusi beni immobili siti nel territorio italiano e diritti immobiliari su questi.

L'imposta sulle successioni è, poi, liquidata dall'ufficio in base alla dichiarazione della successione, ed è nuovamente liquidata in caso di successiva presentazione di dichiarazione sostitutiva o integrativa.

La liquidazione deve essere notificata, mediante avviso, entro il termine di decadenza di tre anni dalla data di presentazione della dichiarazione della successione o della dichiarazione sostitutiva o integrativa (articoli 27, comma 2, 28, comma 6, e 33 del Dlgs 346/1990).

L'obbligo di presentazione grava, tra l'altro, oltre che sui chiamati all'eredità, anche sui legatari, come nel caso di specie, circostanza che contraddice le ricorrenti allorché sostengono nel ricorso per cassazione la violazione del secondo comma dell'articolo 28 del Dlgs 346/1990 assumendo che quest'ultimo, siccome "semplicemente legatario", non era legittimato a dichiarare gli atti di alienazione a titolo oneroso compiuti dal de cuius negli ultimi sei mesi di vita perché tale compito spettava "esclusivamente agli eredi".


Fonte: Agenzia Entrate

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