La sentenza penale di assoluzione per mancanza di prove non è suscettibile di conseguire automatica efficacia e fare stato nel processo tributario. Quando la pronuncia non è passata in giudicato e viene emessa all'esito di un procedimento, cui l'Amministrazione finanziaria non ha preso parte, la sentenza penale non può essere opposta al Fisco ma va valutata dal giudice tributario come semplice indizio o elemento di prova critica in ordine ai fatti in essa eventualmente accertati dal giudice penale.

Qualora l'Amministrazione finanziaria fornisca validi elementi di prova per affermare che alcune fatture sono state emesse per operazioni inesistenti, è onere del contribuente dimostrare l'effettiva esistenza delle operazioni qualificate come inesistenti.

Tali principi sono stati ribaditi dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 12022 del 25 maggio 2009. Si tratta di una pronuncia che affronta questioni rilevanti, quali l'efficacia del giudicato penale nel contenzioso tributario e la ripartizione dell'onere della prova quando il Fisco disconosce l'effettività di operazioni e documenti emessi ai fini fiscali.

La vicenda

La controversia, sottoposta al giudizio della Suprema corte, ha ad oggetto l'impugnazione, da parte di una società, di un avviso di rettifica, a mezzo del quale l'ufficio finanziario aveva giudicato indebita la detrazione di diversi costi in quanto ritenuti fittizi.

Nei primi due gradi di giudizio, la società rimaneva vittoriosa. In particolare, i giudici d'appello disconoscevano le ragioni dell'Amministrazione finanziaria in base all'assunto che il procedimento penale, instaurato per i fatti per cui era stato emanato l'atto impositivo, si era concluso con l'assoluzione degli imputati per mancanza di prove.

L'agenzia delle Entrate provvedeva, quindi, ad adire la Corte di cassazione rilevando l'erroneità della decisione impugnata per avere i giudici di secondo grado posto a fondamento della decisione la sentenza penale di assoluzione non ancora passata in giudicato e non opponibile al Fisco che non aveva partecipato al relativo processo penale e, inoltre, per aver ritenuto che fosse l'ufficio finanziario a dover provare l'inesistenza delle operazioni fatturate e non già il contribuente il contrario.

Le doglianze del Fisco sono state riconosciute fondate dai giudici di legittimità attraverso un preciso percorso di analisi.

Gli effetti dei provvedimenti del giudice penale in sede tributaria

In ordine alla prima questione, relativa alla rilevanza in sede tributaria dei provvedimenti del giudice penale, la Suprema corte si è pronunciata nel senso che la sentenza penale di condanna o di assoluzione può avere efficacia nei giudizi civili e amministrativi solo in caso di irrevocabilità della sentenza penale e solo in caso di partecipazione al dibattimento della parte civile e del responsabile civile nei cui confronti l'efficacia della sentenza venga successivamente invocata. Ciò in quanto l'articolo 654 cpp "limita gli effetti del giudicato penale ai soli soggetti che abbiano assunto la qualità di parti del processo penale, sicché un tale effetto non si può profilare a vantaggio dell'imputato nei confronti delle altre parti del giudizio civile se queste non si siano costituite parti civili nel processo".

Conseguentemente, avendo constatato che l'Amministrazione finanziaria non aveva partecipato al processo penale, la Cassazione si è espressa nel senso che nel, caso di specie, la sentenza penale costituiva "un semplice indizio o elemento di prova critica in ordine ai fatti in essa eventualmente accertati dal giudice penale sulla base delle prove raccolte nel relativo giudizio". Pertanto, il giudice tributario non poteva porre a fondamento della sentenza il semplice richiamo al dispositivo della sentenza penale, ben potendo, invece, utilizzare gli elementi emergenti dalla pronuncia penale "al fine di procedere ad una ricostruzione e valutazione dei fatti, dando conto della natura e della consistenza degli stessi e delle ragioni del proprio convincimento".

La pronuncia in oggetto è in linea con l'orientamento giurisprudenziale consolidato secondo cui il decisum del giudice penale non comporta alcun ingresso automatico nel giudizio tributario delle risultanze probatorie e dell'esito circa la dichiarazione di responsabilità o di assoluzione del contribuente.

Ciò per la considerazione che, secondo l'articolo 654 cpp, la sentenza penale irrevocabile di condanna o di assoluzione, pronunciata in seguito al dibattimento, ha efficacia di giudicato nei giudizi amministrativi nei confronti dell'imputato, della parte civile e del responsabile civile, allorquando in detti giudizi si controverta intorno a un diritto il cui riconoscimento dipende dall'accertamento dei medesimi fatti materiali che sono stati oggetto del giudizio penale, purché i fatti accertati siano stati ritenuti rilevanti ai fini della decisione penale e purché la legge civile non ponga limitazioni alla prova della posizione soggettiva controversa.

Nel processo tributario sussistono le limitazioni probatorie richiamate nel citato articolo 654 cpp, in virtù del fatto che l'articolo 7, comma 4, del Dlgs 546/1992 vieta la prova testimoniale nel processo tributario.

Conseguentemente, la Cassazione si è pronunciata nel senso che, in linea generale, l'attuale legislazione prevede un processo tributario svincolato dal processo penale pur considerando doveroso, da parte del giudice tributario di valutare gli elementi emersi nella sentenza penale (Cass. nn. 29396/2008, 28564/2008, 18084/2008).

In particolare, con la sentenza 8488/2009, i giudici di legittimità hanno ribadito che l'efficacia vincolante del giudicato penale non opera nel processo tributario, dal momento che, in questo, vigono limitazioni della prova e, inoltre, possono valere anche presunzioni inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna. Sulla base di siffatte asserzioni, nella sentenza si statuisce che "il giudice tributario non può limitarsi a rilevare l'esistenza di una sentenza definitiva in materia di reati tributari, estendendone automaticamente gli effetti con riguardo all'azione accertatrice del singolo ufficio tributario, ma, nell'esercizio dei propri autonomi poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 cod. proc. civ.), deve, in ogni caso, verificarne la rilevanza nell'ambito specifico in cui esso è destinato ad operare".

Con la sentenza 22173/2008, la Cassazione ha precisato, ulteriormente, che il giudice tributario è tenuto a "verificare, rispetto alla fattispecie tributaria soggetta ad esame, tutti gli elementi desumibili dall'inchiesta e dalla sentenza penale". Nella medesima direzione si è espressa la sentenza 22438/2008, la quale ha ribadito che il giudice tributario deve procedere a un'autonoma valutazione, secondo le regole proprie di distribuzione dell'onere della prova nel giudizio tributario, degli elementi probatori acquisiti nel processo penale.

Secondo la Suprema corte, quindi, il giudice tributario è tenuto a valutare il materiale probatorio, proveniente dal processo penale, e ad acquisirlo agli atti, al fine di verificarne la rilevanza ai fini fiscali, non potendo invece limitarsi a richiamare il semplice dispositivo della sentenza di condanna o di assoluzione.

Il giudicato penale, quindi, può essere oggetto di autonoma valutazione e apprezzamento da parte del giudice tributario, nell'esercizio del potere-dovere riconosciutogli dall'articolo 116 cpc, norma applicabile nel processo tributario in virtù del rinvio al codice di rito operato dall'articolo 1, comma 2, del Dlgs 546/1992.

Ai sensi dell'articolo 116 cpc, infatti, il giudice deve valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti e può, altresì, desumere argomenti di prova dalle risposte che le parti gli danno, dal loro rifiuto ingiustificato a consentire le ispezioni che egli ha ordinato e, in generale, dal contegno che le parti hanno nel processo.

Operazioni inesistenti e ripartizione dell'onere della prova

In merito, invece, alla tematica della ripartizione dell'onera della prova in presenza di operazioni inesistenti, la Suprema corte ha ulteriormente affermato che "qualora l'Amministrazione fornisca validi elementi di prova per affermare che alcune fatture sono state emesse per operazioni inesistenti, è onere del contribuente dimostrare l'effettiva esistenza delle operazioni, pur con la duplice precisazione che l'Amministrazione non può limitarsi ad una generale ed apodittica contestazione della documentazione del contribuente, essendo suo onere quello di indicare specificamente gli elementi, anche indiziari, sui quali si fonda la propria pretesa e che il giudice di merito deve prendere in considerazione tali elementi, senza limitarsi a dichiarare che essi esistono e sono tali da dimostrare la falsità delle fatture".

Ne deriva che:

1. l'Amministrazione finanziaria è tenuta a dimostrare che le operazioni sono inesistenti anche mediante l'utilizzo di elementi indiziari

2. il contribuente ha l'onere di dimostrare l'effettiva esistenza delle operazioni non limitandosi a opporre la documentazione formale, bensì allegando elementi di prova in grado di dimostrare la loro effettiva esistenza

3. il giudice di merito deve "da un lato, verificare la serietà e gravità degli elementi di prova posti dall'Amministrazione a sostegno della sua contestazione e, dall'altro, esaminare le eventuali controdeduzioni offerte dalla parte privata".

Tale pronuncia viene a rafforzare l'orientamento giurisprudenziale secondo cui spetta al contribuente l'onere di provare l'esistenza dei fatti che danno luogo a costi deducibili o a detrazioni, allorquando il Fisco contesti l'effettività delle operazioni economiche rilevanti ai fini dell'imposizione diretta e Iva.

Anche recentemente la Cassazione ha statuito che, qualora l'Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l'indebita detrazione di costi per operazioni inesistenti, la prova della legittimità e della correttezza delle detrazioni deve essere fornita dal contribuente. Tale prova, peraltro, non può essere costituita dalla sola esibizione dei mezzi di pagamento; tali strumenti "vengono normalmente utilizzati fittiziamente e, pertanto, rappresentano un mero elemento indiziario, la cui presenza (o assenza) deve essere valutata nel contesto di tutte le altre risultanze processuali" (Cass. 1134/2009).

Ulteriormente, i giudici di legittimità hanno chiarito che "qualora l'Amministrazione contesti al contribuente l'indebita detrazione di fatture, in quanto relative ad operazioni inesistenti, e fornisca attendibili riscontri indiziali sulla inesistenza delle operazioni fatturate, è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo altrimenti indebiti, non assumendo rilievo la propria buona fede" (Cass. 27072/2008; in tal senso, 21303/2008 e 2847/2008).

Fonte: Agenzia Entrate

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