La sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo nel reato di “dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”, ex articolo 2 del Dlgs.74/2000, risulta razionalmente dedotta, in caso di accertata presenza di una “cartiera”, dal fatto che il commercialista abbia redatto i bilanci e le dichiarazioni fiscali della società cooperativa truffaldina.
Questo il principio di diritto desumibile dalla pronuncia della Cassazione n. 39873 del 26 settembre.

I fatti
Un professionista veniva condannato in primo e in secondo grado – rispettivamente da Tribunale e Corte di appello di Milano – a un anno e sei mesi di reclusione, per aver indicato nelle dichiarazioni fiscali, in qualità di commercialista di una cooperativa, elementi passivi fittizi, avvalendosi di fatture per operazioni inesistenti.
Il contribuente ricorreva per cassazione, eccependo due aspetti:
il primo, a livello di obiter dictum, relativo alla qualificazione del verbale della polizia giudiziaria, quale atto irripetibile
il secondo, costituente la ratio decidendi della sentenza in esame, riguardo l’insussistenza di elementi di responsabilità a carico dell’imputato, in specie dell’elemento soggettivo del reato.
La decisione di legittimità
I giudici premettono che, nel novero degli “atti irripetibili”, rientrano tutti quelli mediante i quali la procura generale prende diretta cognizione di situazioni o comportamenti penalmente rilevanti, suscettibili di modifica: nel caso in esame, attraverso l’acquisizione di dichiarazioni fiscali e fatture in sede di verifica, la Guardia di finanza aveva incontestabilmente accertato che la cooperativa era una “cartiera”.
In effetti, non vi erano dipendenti, né capannoni o magazzini, macchinari, documentazione bancaria ovvero utenze attive. Era stato accertato, inoltre, che il commercialista stesso aveva fornito indicazioni per la sostituzione delle fatture con documenti intestati a “fornitore sospeso”, al fine precipuo di occultare i dati di riferimento e di ostacolare il controllo incrociato clienti-fornitori.
La riferita sostituzione documentale era, quindi, accertata per tabulas dalla Procura generale e l’imputato appariva l’ispiratore della condotta fraudolenta.

Ciò premesso, la Corte suprema ritiene di dover confermare la responsabilità dell’imputato, suggerendo un “alleggerimento” dell’onere probatorio in capo alla pubblica accusa, per il caso di situazioni di palese organizzazione criminale finalizzata a danneggiare l’Erario (ad esempio, cartiere per frodi Iva).
Così, infatti, si esprime la Cassazione: “la sussistenza dell’elemento soggettivo dei reati risulta razionalmente dedotta, ad avviso dei giudici, dalle circostanze che il consulente aveva redatto i bilanci e le dichiarazioni fiscali della cooperativa ed era ben consapevole del ruolo di mere svolto dalle emittenti (la sede sociale della prima coincideva con il proprio ufficio, quella della seconda con l’indirizzo di un amministratore nel frattempo deceduto)”.
Prosegue, quindi, la Corte, “le fatture, inoltre, già in sé stesse, erano oggettivamente tali da indurre sospetto in un commercialista appena avveduto, poiché in esse le attività fornite, a fronte di importi considerevoli, erano solo genericamente descritte. Gli ulteriori elementi significativi di frode sono pertanto di mero contorno nella configurazione di un’attività dolosa già esaurientemente delineata”.
Da ciò, il rigetto del ricorso del professionista.

Brevi riflessioni
La statuizione in commento si pone nel solco di un’incessante opera giurisprudenziale di cesellamento della figura del consulente nel settore dei reati tributari.
In effetti, acclarata l’impossibilità giuridica di considerare il commercialista/consulente estraneo ai fatti in questione, si è molto discusso delle possibili forme di collaborazione (rectius, concorso) di tale soggetto nei reati di cui al Dlgs 74/2000.
La dottrina penal-tributaria si è molto spesa sull’ipotesi di “consiglio tecnico” – vale a dire la prestazione di suggerimenti in ordine alle modalità di commissione del reato – configurante un contributo causale sia morale che materiale. Rilevante, nella ermeneusi degli studiosi, è anche l’ipotesi di “contegno omissivo”, per mancato controllo sui conti e i documenti societari.

Diverso ancora è il nostro caso: il commercialista ha tenuto una condotta attiva, integrante di per sé il reato di cui all’articolo 2 del Dlgs 74/2000, caratterizzato da dolo specifico (“...al fine di evadere le IIDD o l'IVA...”).
Tale forma di dolo, secondo la Cassazione, è facilmente dimostrabile (se non in re ipsa, per chi ammette detta ipotesi) nelle ipotesi di “cartiere”, proprio perché tali meccanismi fraudolenti postulano un preciso schema organizzativo, “rappresentato e voluto” a monte.


Fonte: Agenzia Entrate

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