Può essere soggetta a sequestro preventivo la casa coniugale dell’indagato per frode fiscale, quand’anche si tratti di bene personale assegnato al coniuge legalmente separato.
Così ha deciso la Corte di cassazione con la sentenza 39425 del 24 settembre.

La decisione
La vicenda trae origine dal ricorso innanzi al giudice del riesame proposto dal coniuge separato di un imprenditore indagato per il delitto di frode fiscale.
Oggetto del ricorso era l’annullamento dell’ordinanza di sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente su un immobile abitato dalla ricorrente, sulle quote societarie della società immobiliare proprietaria dell’immobile e sul denaro esistente su un conto corrente.
La ricorrente, in qualità di soggetto terzo al reato, lamentava che i beni non potessero essere sottoposti a sequestro perché vincolati a finalità alimentari verso il coniuge separato (e la figlia minore).

Il giudice di merito respingeva il ricorso e, avverso tale ordinanza, proponeva ricorso per cassazione la moglie dell’indagato.
I giudici della Suprema corte respingevano anch’essi il ricorso, sul presupposto che il giudice del riesame avesse adeguatamente motivato l’ordinanza oggetto di impugnazione, avendo riportato in maniera circostanziata le ragioni poste alla base della conferma del provvedimento di sequestro del giudice per le indagini preliminari.
I giudici di legittimità, che sul punto hanno avallato la decisione del tribunale di merito, hanno stabilito che anche i beni “personali” dell’indagato per un reato di natura fiscale, sebbene vincolati, possono essere sequestrati, se si dimostra l’imputabilità della proprietà dei beni stessi in capo al reo.
L’iter logico-giuridico seguito dalla Cassazione è partito dalla constatazione che la casa coniugale non fosse di proprietà del coniuge separato, né rientrasse a pieno titolo nel regime di comunione legale, ma fosse intestata a una società immobiliare, di cui l’indagato era titolare delle quote sociali.

La stessa società aveva prima conferito il bene in comodato gratuito alla moglie del titolare, per poi assegnarla in sua esclusiva competenza. Ciononostante, come emerso nel corso della separazione, l’abitazione era stata pagata grazie al ricavato di un mutuo concesso da un istituto di credito alla società stessa. Per di più, sulla base degli accordi patrimoniali intercorsi tra i coniugi, le rate del mutuo rimanevano a carico della società, fino a concorrenza degli utili realizzati e, per l’eccedenza, a carico dello stesso coniuge indagato.

A ulteriore conferma della legittimità dell’ordinanza di sequestro, deve considerarsi che le quote della società immobiliare erano di proprietà del reo, che le deteneva per il tramite di due società fiduciarie. Allo stesso modo dovevano intendersi di proprietà dell’indagato gli utili prodotti dall’immobiliare, che finanziariamente confluivano sul conto corrente, sottoposto a sequestro, utilizzato per la gestione dell’immobile: da ciò la legittimità della misura cautelare. Peraltro, le quote della società immobiliare non erano mai confluite nella comunione dei beni, in quanto non risultava quale fosse il regime patrimoniale adottato dai coniugi all’atto del matrimonio, né quello convenzionalmente scelto al momento della separazione di fatto della coppia.

Sul tema della riconducibilità dei beni sequestrati alla sfera patrimoniale dell’indagato, i giudici di legittimità hanno concluso osservando che le quote societarie non avrebbero mai potuto confluire nella comunione legale poiché, considerata la qualifica imprenditoriale del soggetto indagato, essi costituiscono “beni personali” di esclusiva proprietà dello stesso reo, in forza del disposto dell’articolo 179, lettere c) e d), del codice civile, secondo cui sono beni personali del coniuge “i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge ed i loro accessori” e “i beni che servono all'esercizio della professione del coniuge, tranne quelli destinati alla conduzione di una azienda facente parte della comunione”.


Fonte: Agenzia Entrate

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