All’eventuale protrarsi delle operazioni di verifica oltre i 30 giorni, l’articolo 12, comma 5, dello Statuto del contribuente non ricollega né l’inutilizzabilità delle prove raccolte né la nullità degli accertamenti compiuti.
Questo l’importante principio affermato dalla Corte di cassazione nella sentenza 19338/2011, con la quale i giudici di legittimità si sono pronunciati sulla violazione della durata della verifica fiscale.

La questione
Com’è noto l’articolo 12, comma 5, della legge 212/2000 (Statuto del contribuente) - recentemente integrato dal “decreto sviluppo” - stabilisce, al primo periodo, che “La permanenza degli operatori civili o militari dell’amministrazione finanziaria, dovuta a verifiche presso la sede del contribuente, non può superare i trenta giorni lavorativi, prorogabili per ulteriori trenta giorni nei casi di particolare complessità dell’indagine individuati e motivati dal dirigente dell’ufficio. Gli operatori possono ritornare nella sede del contribuente, decorso tale periodo, per esaminare le osservazioni e le richieste eventualmente presentate dal contribuente dopo la conclusione delle operazioni di verifica ovvero, previo assenso motivato del dirigente dell’ufficio, per specifiche ragioni”.

Due le questioni che si sono imposte all’attenzione degli interpreti in relazione all’applicazione della suddetta norma:
se il limite di durata della verifica, espresso in giorni, si riferisse a quelli di effettiva presenza dei verificatori presso la sede del contribuente o dovesse, invece, essere inteso come riferito a giorni lavorativi consecutivi, a decorrere da quello di accesso e a prescindere dalla presenza effettiva dei verificatori presso la sede del contribuente
quali fossero le (eventuali) conseguenze da far discendere dalla violazione del termine in oggetto.

Con riferimento alla prima delle due questioni prospettate, sia la Guardia di finanza che l’Agenzia delle Entrate hanno precisato, in più di un’occasione, che “il termine di trenta giorni rileva sul piano dell’effettiva permanenza presso la sede del contribuente per esigenze propriamente ispettive considerando quindi le giornate lavorative effettivamente ivi trascorse a decorrere dalla data di accesso per svolgere le operazioni di controllo (circolari Gdf 1/2008 e 250400/2000 e circolare dell’Agenzia delle Entrate 64/ 2001).

Di contro, non sono mancate in giurisprudenza decisioni di segno opposto, per le quali “L’art. 12 comma 5 della legge 212/2000, secondo cui la permanenza degli operatori dell’Amministrazione Finanziaria dovuta a verifiche presso la sede del contribuente non può superare i trenta giorni lavorativi prorogabili per ulteriori trenta giorni nei casi di particolare complessità dell’indagine, deve essere interpretata in senso restrittivo calcolando la durata massima come sommatoria di 60 giorni lavorativi e consecutivi” (Ctp di Bari, sentenza 293/2010).

La questione ha, poi, trovato un’importante definitiva conferma normativa con il Dl 70/2011, che ha aggiunto il seguente periodo all’articolo 12, comma 5, della legge 212/2000: “Il periodo di permanenza presso la sede del contribuente di cui al primo periodo, così come l’eventuale proroga ivi prevista, non può essere superiore a quindici giorni in tutti i casi in cui la verifica sia svolta presso la sede di imprese in contabilità semplificata e lavoratori autonomi; anche in tali casi, ai fini del computo dei giorni lavorativi, devono essere considerati i giorni di effettiva presenza degli operatori civili o militari dell’Amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente”.

Più dibattuta risulta, invece, la seconda questione indicata, vale a dire quella afferente gli effetti derivanti dalla violazione del termine di cui all’articolo 12, comma 5, dello Statuto del contribuente.
Pur nel silenzio della norma sul punto, infatti, non sono mancate prese di posizione giurisprudenziali volte a far discendere, dalla violazione anzidetta, o l’inutilizzabilità degli elementi di prova raccolti oltre il limite fissato, trattandosi di attività posta in essere in violazione di una norma espressa (Ctp Catania 238/2004), ovvero la nullità del processo verbale relativo alla verifica, con conseguente nullità dell’avviso di accertamento scaturito dal processo verbale medesimo.

La pronuncia della Cassazione
Come si è detto, con la sentenza 19338/2011, la Corte suprema è intervenuta sulla questione delle conseguenze da riconnettere all’eventuale violazione dei termini (articolo 12, comma 5, dello Statuto del contribuente), disattendendo le posizioni assunte dalla giurisprudenza di merito richiamata.

Più in particolare, i giudici di legittimità hanno inizialmente escluso che, nel caso di specie, potesse trovare applicazione l’articolo 12, comma 5, trattandosi di ispezione iniziata in data anteriore all’entrata in vigore della norma.

Al riguardo, invero, la Cassazione – dopo avere ribadito l’importante principio per cui “in tema di efficacia nel tempo delle norme tributarie, le disposizioni della legge 27 luglio 2000 n. 212 […] non hanno efficacia retroattiva, in base al principio di cui all’art. 11 delle disp. gen. ad eccezione delle norme che costituiscono attuazione degli artt. 3,23,53, e 97 Cost. in quanto espressione di principi costituzionali vigenti” – ha chiarito che la disposizione in oggetto pone a garanzia del verificato “una regola non immediatamente desumibile dalle norme costituzionali e, pertanto, in base all’art. 11 disp. gen., non è applicabile al periodo anteriore, id est alle operazioni di verifica iniziate anteriormente alla sua entrata in vigore”.

Precisato ciò con riguardo al caso di specie, i giudici di legittimità hanno poi proseguito chiarendo che, in ogni caso, all’eventuale violazione del termine di permanenza presso la sede del contribuente, l’articolo 12, comma 5, della legge 212/2000 non ricollega né l’inutilizzabilità delle prove raccolte né la nullità degli atti di accertamento compiuti, con ciò disattendendo l’orientamento giurisprudenziale poc’anzi ricordato alla luce del noto principio “ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit” e confermando – ancorché implicitamente – l’importante principio espresso in occasione della sentenza 8344/2001, secondo il quale non esiste, nell’ordinamento tributario, un principio generale di inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite, ragion per cui l’acquisizione irrituale di elementi rilevanti ai fini dell’accertamento fiscale non può comportare l’inutilizzabilità degli stessi in mancanza di specifica previsione in tal senso.

Ciò posto, la Suprema corte, facendo proprie le argomentazioni esposte dall’Agenzia delle Entrate nelle proprie difese, ha altresì ribadito che la soluzione del problema – oltre a non poter prescindere dalla lettera della norma, come si è ricordato poc’anzi – non può neppure sottrarsi a un’attenta analisi della compiuta disciplina dettata dalla legge 212/2000 con riferimento a eventuali irregolarità commesse dai verificatori durante l’ispezione.

E muovendo dal presupposto che tra queste “irregolarità” potesse rientrare anche l’ingiustificata protrazione delle operazioni di verifica, i giudici di legittimità hanno concluso che, in siffatte ipotesi, i rimedi a disposizione del contribuente non possono essere se non quelli espressamente individuati dal legislatore, che ha riconosciuto in capo al contribuente sia la possibilità di “formulare a verbale osservazioni e rilievi (art. 12 comma 4)” che quella di “rivolgersi al Garante (art. 12 comma 6) che in seguito alla segnalazione esercita i poteri istruttori richiesti dal caso (art. 13 comma 6) richiamando ‘gli uffici al rispetto di quanto previsto dagli artt. 5 e 12 della presente legge’ e, ove rilevi comportamenti che ‘determinano un pregiudizio per i contribuenti o conseguenze negative nei loro rapporti con l’amministrazione’ trasmette le relative segnalazioni ai titolari degli organi dirigenziali al fine di un eventuale avvio del procedimento disciplinare”.


Fonte: Agenzia Entrate

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