Non può avvalersi della definizione agevolata per la chiusura delle liti fiscali pendenti, il contribuente che abbia impugnato un avviso di accertamento oltre i termini di legge, al solo scopo di avviare un giudizio che possa essere formalmente ricondotto nel novero delle cause pendenti previste dalla norma di favore.
Questo, in sintesi, il principio di diritto desumibile dalla sentenza della Cassazione 19693 del 27 settembre.

I fatti di causa
Dopo circa 6 anni dalla sua notifica, un contribuente impugnava un avviso di accertamento Irpef, oramai divenuto definitivo, eccependo di non averlo mai ricevuto a causa di un vizio di notifica.
Nel corso del procedimento dinnanzi la Commissione tributaria provinciale, per definire la lite, il ricorrente inoltrava domanda di chiusura della controversia fiscale pendente all’ufficio ai sensi dell’articolo 2, comma 49, della legge 350/2003, il quale, sostanzialmente, prorogava la possibilità di definire le controversie in maniera agevolata (ex articolo 16 della legge 289/2002) ai ricorsi pendenti nel periodo 2 gennaio 2003 – 1° gennaio 2004 (nel caso di specie il ricorrente ha introdotto il giudizio il 18 dicembre 2003).

L’ufficio respingeva la richiesta osservando che l’accertamento era oramai definitivo in virtù della mancata impugnazione nei termini di legge e che erano, inoltre, state emesse le relative cartelle di pagamento, tra l’altro, mai impugnate.

A questo punto, il contribuente ricorreva anche contro il diniego di definizione della lite e i giudici di prime cure riunivano tale controversia con quella relativa all’accertamento.

La Commissione tributaria provinciale prima e la Commissione tributaria regionale poi, respingevano i rilievi del contribuente e confermavano i provvedimenti emessi dall’ufficio.
In particolare, i giudici del gravame ritenevano pretestuosa l’impugnazione in quanto, dall’istanza di autotutela presentata precedentemente al ricorso, emergeva appieno la conoscenza sia del contenuto dell’atto, sia della pendenza della procedura di riscossione in atto.
In pratica, non sussistendo questioni controverse che potessero giustificare l’esistenza di una “vera e propria” lite fra le parti, veniva di conseguenza a mancare il presupposto essenziale richiesto dalla legge per la definizione agevolata.

Contro la pronuncia della Ctr, la parte privata proponeva ricorso per cassazione.

La pronuncia della Corte di cassazione
Il motivo principale di doglianza si riferisce alla errata interpretazione, da parte del giudice di merito, dell’espressione “pendenza della lite” che, come osservato in precedenza, costituisce il presupposto essenziale per la definizione ai sensi dell’articolo 2, comma 49, della legge 350/2003. Secondo il ricorrente, la Ctr avrebbe dovuto limitarsi a riscontrare l’esistenza di un rapporto processuale pendente alla data del 1° gennaio 2004, riferendo l’analisi al solo momento di proposizione dell’atto introduttivo del giudizio, risalente, nel caso di specie, al 18 dicembre 2003.

Sul punto, però, la Cassazione ha stabilito che, al di là del dato letterale di cui all’articolo 2, comma 49, della legge 350/2003 “…una lite può considerarsi "pendente" (anche ove si possa prospettare inammissibile il ricorso introduttivo di quella) allorché essa possa considerarsi "reale", e sia, cioè, provvista di un margine di incertezza, tanto che permanga l’interesse, non solo del contribuente ma anche dell’amministrazione, a definirla”.
I giudici di legittimità sottolineano che una diversa interpretazione, anziché deflazionare il contenzioso, lo alimenterebbe attraverso impugnazioni strumentali volte a includere “…oltre ogni limite temporale, atti impositivi ormai da tempo divenuti definitivi e perciò non più "litigiosi"”.

Tra l’altro, in tema di condono, il Supremo collegio richiama un principio generale già affermato dai giudici di legittimità, secondo cui “…l’impugnazione tardiva a fini meramente strumentali (e cioè per creare artificiosamente un contenzioso che permetta il pagamento di una minore imposta rispetto a quanto accertato, grazie a provvedimenti premiali di cui si abbia anticipato sentore), non può sortire l’effetto voluto”.

In conclusione, nel caso in esame, la lite non poteva essere considerata pendente, posto che ne difettavano i presupposti, essendo certo il convincimento della definitività del provvedimento impositivo non solo da parte dell’amministrazione, ma anche e soprattutto da parte del contribuente, così come, tra l’altro, emergeva dal contenuto dell’istanza di autotutela presentata da quest’ultimo.

Considerazioni conclusive
Con la sentenza in esame, la Cassazione ribadisce il principio generale (Cassazione 15158/2006) secondo cui l’impugnazione tardiva non può in nessun caso costituire lo strumento volto a ottenere gli effetti premiali propri di un condono fiscale.

E’ immanente nel sistema legislativo-tributario il principio per cui le norme che regolano le sanatorie fiscali non possono essere interpretate oltre il limite fissato dalla loro stessa ratio. Nel caso di specie, la rigorosa interpretazione letterale della locuzione “liti pendenti”, per la quale basterebbe la mera proposizione del giudizio nel periodo preso in considerazione dalla norma per poter fruire della definizione agevolata, può portare al paradosso di disconoscere la stessa ratio regolatrice dei predetti articoli 2 e 16, rappresentata dalla volontà di deflazionare il contenzioso pendente.
In questo modo, infatti, si potrebbe indurre colui che abbia avuto “sentore” della definizione agevolata, a promuovere la strada del contenzioso attraverso impugnazioni pretestuose che, come nel caso in esame, possono essere intraprese anche a distanza di diversi anni, ovverosia allorquando l’avviso di accertamento sia da tempo divenuto definitivo e sia altresì maturata, in entrambe le parti contrapposte, la convinzione della intangibilità del provvedimento oggetto della controversia.


Fonte: Agenzia Entrate

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