La mera domiciliazione della documentazione contabile presso il commercialista non vale a dimostrare l'esistenza di un rapporto di opera professionale.E' quanto affermato dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9917 depositata lo scorso 26 aprile.

Nel caso di specie, la Corte di appello rigettava l’appello proposto da un contribuente contro la decisione del giudice unico presso il Tribunale di Roma, che aveva respinto la sua domanda di risarcimento di danni da responsabilità professionale proposta contro il suo commercialista. Nell’atto di citazione l’attore aveva esposto che, nella sua attività di gestore di un bar si era avvalso, per qualche tempo, dell’opera del commercialista per la tenuta della contabilità.

Successivamente, la Guardia di Finanza aveva effettuato un controllo nel suo esercizio commerciale, riscontrando irregolarità formali nella tenuta dei libri contabili, in conseguenza del fatto che il professionista non aveva utilizzato la documentazione contabile trasmessagli dallo stesso contribuente ai fini della compilazione della dichiarazione dei redditi e della determinazione dell’imponibile ai fini IRPEF e IVA.

Inoltre, il professionista non aveva provveduto a proporre ricorso alla Commissione Tributaria avverso l’accertamento, nonostante si fosse fatto rilasciare apposita procura dal contribuente. E proprio per questo motivo, l’attore aveva dovuto pagare all’Erario un'ingente somma di denaro.

Ritenendo che tale somma corrispondesse esattamente al danno conseguente all’inadempimento della opera professionale del commercialista, l’attore aveva chiesto la condanna di quest’ultimo all’integrale risarcimento del danno. Tuttavia, la domanda è stata rigettata sia in primo che in secondo grado.

In particolare, i giudici di appello avevano escluso l'esistenza di un rapporto professionale tra il contribuente ed il commercialista, che invece per il contribuente attore risultava provato dai documenti prodotti, oltre che dalle dichiarazioni rese da un testimone. Inoltre, dal processo verbale di constatazione redatto dalla GdF risultava quale luogo di conservazione della contabilità del bar lo studio di consulenza del commercialista sito in Roma.

Per l'attore, tutti questi elementi di prova sarebbero stati trascurati dalla Corte territoriale, la quale aveva ritenuto non decisiva la deposizione testimoniale, in quanto resa dal figlio del contribuente e non significativa l'indicazione del luogo di conservazione della contabilità, in quanto proveniente dallo stesso contribuente.

Al riguardo, la S.C. ha ritenuto corretto l'operato dei giudici di secondo grado, i quali hanno osservato che il contribuente aveva richiesto il risarcimento del danno da responsabilità professionale per due distinti inadempimenti: il primo riguardante la non corretta tenuta della contabilità ed il secondo la mancata impugnazione dell’accertamento fiscale.

In realtà, la testimonianza raccolta e la mera domiciliazione della documentazione contabile presso il commercialista non valgono a dimostrare l'esistenza di un rapporto di opera professionale.

Inoltre, era difficile ipotizzare l'esecuzione degli adempimenti contabili che la gestione di un esercizio commerciale comporta, da parte di un commercialista che - domiciliatario della documentazione contabile - ha il proprio studio professionale a varie centinaia di chilometri di distanza. I verificatori peraltro, avevano accertato la presenza del registro dei corrispettivi presso il bar.

Quanto al secondo incarico professionale, gli stessi giudici di appello hanno osservato che non vi era prova di un conferimento al commercialista dello specifico incarico di proposizione di ricorso alla Commissione tributaria avverso l’avviso di accertamento. A sostegno della tesi del conferimento dell’incarico professionale per la presentazione del ricorso, l'attore si era limitato ad offrire la testimonianza del proprio figlio, il quale aveva dichiarato di aver consegnato al commercialista un foglio, firmato in bianco dal padre, da utilizzare per la presentazione di un ricorso alla Commissione Tributaria.

Una volta esaminate le risultanze probatorie, i giudici di appello hanno concluso che il contenuto dell’incarico conferito al professionista doveva considerarsi del tutto generico.

Infine, i giudici di appello hanno rilevato che, anche a voler ritenere che un incarico professionale fosse stato conferito, per poter accogliere la richiesta di risarcimento dell'attore questi avrebbe dovuto dimostrare l'esistenza di eventuali errori da parte della GdF e le probabilità di successo del ricorso.

Pertanto per i giudici di legittimità il principio affermato dalla Corte d'appello è conforme alla consolidata giurisprudenza della S.C., secondo la quale la responsabilità del prestatore di opera intellettuale nei confronti del proprio cliente per negligente svolgimento dell’attività professionale presuppone la prova del danno e del nesso causale tra la condotta del professionista ed il pregiudizio del cliente e, in particolare, trattandosi dell’attività del difensore, l’affermazione della responsabilità per colpa professionale implica una valutazione prognostica positiva circa il probabile esito favorevole dell’azione giudiziale che avrebbe dovuto essere proposta e diligentemente seguita.

(Cassazione civile Sentenza, Sez. III, 26/04/2010, n. 9917)


Fonte: IPSOA

0 commenti:

 
Top