Se nel corso del giudizio il contribuente rileva l'erronea indicazione in fattura di un'aliquota d'imposta superiore rispetto a quella reale, il giudice di merito, al di fuori delle ipotesi di correzione previste dall'articolo 26 del Dpr 633/1972, non è legittimato a ridurre, di sua iniziativa, l'ammontare dell'imposta quantificata nel predetto documento fiscale.
La variazione in diminuzione dell'imposta indicata in fattura è sottoposta esclusivamente alle regole previste dall'articolo 26.
Questo il principio di diritto desumibile dalle decisioni "gemelle", pronunciate su identiche controversie, dalla sezione tributaria della Corte di cassazione con ordinanze nn. 9587 e 9588, del 22 aprile.

La vicenda, comune a entrambe le controversie, è originata da una rettifica Iva operata dall'Agenzia delle Entrate e relativa all'accertamento di maggiori corrispettivi nei riguardi dell'emittente le fatture oggetto di recupero.
A seguito della sentenza della Commissione tributaria provinciale, parzialmente sfavorevole alle sorti dell'Agenzia, l'ufficio proponeva appello che, successivamente, veniva rigettato dai giudici di secondo grado.
Contro tale decisione, l'Agenzia delle Entrate ricorreva in Cassazione, eccependo, con unico motivo, la doglianza secondo cui, il giudice tributario, nel ritenere dovuta l'imposta recata dalla fattura nella quale i corrispettivi erano indicati in misura superiore a quelli reali, ne avesse tuttavia ridotto l'ammontare per avere, l'emittente, erroneamente indicato l'aliquota del 19% anziché quella, effettivamente applicabile, ratione temporis, del 9 per cento.

La pronuncia della Cassazione
Il Supremo collegio, aderendo a quanto affermato dal giudice relatore, con due identiche ordinanze, ha cassato le sentenze dei giudici di merito, rinviando le cause ad altra sezione della Commissione tributaria regionale.
Per i giudici di piazza Cavour, nel caso in questione, risulta applicabile la norma di cui all'articolo 21, comma 7, del Dpr 633/1972, e cioè che "… se i corrispettivi delle operazioni o le imposte relative sono indicate in misura superiore a quella reale, l'imposta e' dovuta per l'intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni in fattura".

Per la Cassazione tale formulazione non riveste carattere sanzionatorio, ma ha il solo scopo di ricondurre a coerenza il sistema dell'Iva.
Ne consegue che, se nella fattura vengono esposti corrispettivi in misura superiore a quella reale, l'imposta è dovuta per l'intero ammontare indicato, con l'ulteriore conseguenza che "…l'eventuale errore commesso nella indicazione o nel calcolo della aliquota di imposta può essere corretto solo mediante il ricorso alla procedura di cui all'art. 26 dello stesso D.P.R.".

Osservazioni
Con le pronunce in esame, la Cassazione pone in evidenza la circostanza secondo cui l'unica procedura, atta a poter correggere in diminuzione una fattura già emessa, è rappresentata da quella descritta nell'articolo 26 del decreto Iva.
Secondo tale norma, anche in caso di rettifica di inesattezze della fatturazione, che abbiano dato luogo all'applicazione del settimo comma dell'articolo 21 (qual è il caso dell'esposizione in fattura di Iva in misura superiore a quella dovuta per legge), la correzione è ammessa mediante la predisposizione di un'apposita nota di variazione redatta da parte dell'emittente della fattura "inesatta", nel termine di un anno dall'effettuazione dell'operazione da rettificare.

Questa "limitazione alla correzione" riferita alle ipotesi delineate dal settimo comma dell'articolo 21, è giustificata dalla volontà del legislatore di ricondurre a coerenza il sistema impositivo dell'Iva, che si fonda sui principi della rivalsa e della detrazione.
Ne deriva che neppure il giudice tributario, al di fuori della procedura all'uopo prevista dal predetto articolo 26, potrà provvedere alla correzione dell'errore dell'emittente della fattura, per mezzo della riduzione dell'imposta ivi esposta.



Fonte: Agenzia Entrate

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