Il versamento di assegni, non transitati dalla contabilità, da parte di soci o dipendenti a favore della società configura, di per sé, una presunzione grave, precisa e concordante, sufficiente a poter desumere ricavi in nero e, conseguentemente, legittimare un accertamento di tipo analitico-induttivo. Questo, in sintesi, il principio di diritto desumibile dalla sentenza della Cassazione n. 10584, depositata lo scorso 30 aprile.
La vicenda
La controversia trae origine dall'emissione di cinque avvisi di accertamento ai fini Irpeg e Ilor, per gli anni di imposta dal 1993 al 1997, con i quali, a seguito di un'indagine penale condotta su soci e dipendenti di una società cooperativa, l'allora ufficio Imposte indirette, contestava, tra vari rilievi, l'omessa giustificazione contabile di numerosi assegni emessi da soci e dipendenti in favore della società, sul presupposto che si trattasse di somme versate da clienti sui loro conti correnti bancari per prestazioni in nero.
Contro tali avvisi, la società proponeva ricorso eccependo, quale principale motivo di impugnazione, la carenza di prove che giustificassero la rettifica, basata su presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza. Sul punto, la Commissione tributaria provinciale adita, pronunciandosi nel merito, respingeva il ricorso.
Nel grado successivo, la commissione tributaria regionale accoglieva parzialmente il gravame, affermando che l'onere della prova circa l'omessa contabilizzazione dei ricavi incombesse sull'Amministrazione finanziaria e che lo stesso non potesse, in ogni caso, essere soddisfatto in ordine alla sussistenza di un nesso logico tra i movimenti bancari dei soci esattori e l'evasione della società, considerato, tra l'altro, il lungo periodo intercorrente tra il deposito delle somme nei conti correnti dei soci e il riversamento presso quello della società che, in alcuni casi, avveniva anche in maniera non integrale.
Inoltre, per i giudici di secondo grado la società non avrebbe dovuto rispondere fiscalmente di tali introiti in quanto, dalla perizia eseguita in sede di procedimento penale a carico del rappresentante legale, dell'amministratore della società e di alcuni soci, essa stessa era risultata parte lesa dal momento che soci e dipendenti si sarebbero indebitamente appropriati di parte delle somme destinate alla stessa.
Contro tale ultima decisione l'Agenzia delle Entrate proponeva, con unico motivo, ricorso per Cassazione.
La pronuncia della Corte di cassazione
Il Collegio, ritenendo fondato il ricorso, ha cassato la sentenza dei giudici di merito e rinviato la causa ad altra sezione della Commissione tributaria regionale.
Per la Cassazione, la Ctr, partendo dall'esatto presupposto secondo cui la pretesa fiscale deve essere provata dalla Amministrazione finanziaria, erra quando, implicitamente, ritiene che tale prova, in presenza di un legittimo accertamento di tipo analitico-induttivo, non possa essere assolta attraverso l'esclusivo utilizzo dei dati emergenti dai movimenti dei conti correnti bancari.
Secondo i giudici di legittimità, deve riconoscersi che, con riferimento all'accertamento del maggior reddito di impresa "... è legittima, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32 l'utilizzazione da parte dell'amministrazione finanziaria (anche attraverso un puntuale richiamo, nell'avviso di accertamento, al verbale di ispezione redatto dalla guardia di finanza) dei dati relativi ai movimenti bancari del contribuente e degli eventuali soci, che costituiscono valida prova presuntiva, anche senza l'indicazione analitica delle singole annotazioni utilizzate per la ricostruzione dell'imponibile...".
Peraltro, a conferma della propria tesi, la Cassazione richiama diversi precedenti (sentenze 51/1999, 6465/2002, 9884/2002, 15299/2005, 16993/2007) secondo i quali, per aversi una "valida" prova presuntiva, la relazione tra il fatto noto e quello ignoto non deve essere necessariamente "stringente", bensì è sufficiente "... che il rapporto di dipendenza logica tra fatto noto e quello ignoto sia accertato alla stregua di canoni di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti la cui sequenza e ricorrenza possano verificarsi secondo regole di esperienza".
In presenza di una valida presunzione, quindi, spetta al contribuente l'onere della prova liberatoria, la quale, per i giudici di legittimità, dovrà inevitabilmente "...essere specifica e riguardare analiticamente i singoli movimenti bancari..." ed atta a dimostrare "...che ciascuna delle operazioni effettuate fosse estranea a fatti imponibili".
Quanto all'assunto della Ctr relativo alla "scusante", costituita dalla posizione di parte lesa rivestita dalla società nel processo penale, per la Cassazione la stessa può avere importanza solo in quella sede, risultando del tutto irrilevante nell'ambito del rapporto tributario, per il quale ad ogni introito, costituente reddito, deve irrinunciabilmente corrispondere l'adempimento dell'obbligo fiscale.
I giudici di merito avevano, in conclusione, ritenuto che la presunzione stabilita dal Dpr 600/1973, articolo 39, non fosse idonea a fondare la rettifica accollando, paradossalmente, all'ente impositore l'onere della ulteriore prova, sul presupposto che non fossero state eseguite altre indagini finalizzate a riscontrare se i versamenti sui conti correnti dei soci costituissero o meno proventi della società.
Fonte: Agenzia Entrate
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