Nella sentenza n. 21184 dell’8 ottobre 2014, la Cassazione ha affermato che, ai fini della deducibilità dei costi imputabili a consulenze infragruppo, è necessario provare l’inerenza e la congruità della spesa, con la conseguenza che l’Amministrazione finanziaria può legittimamente disconoscere la deducibilità dei relativi costi sulla base del principio di inerenza, disciplinato dall’articolo 109 del Tuir.

La vicenda origina dal ricorso in Cassazione proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso una sentenza della Ctr della Lombardia che, accogliendo l’appello presentato da una società, aveva ritenuto illegittimo l’avviso di accertamento emesso da un ufficio finanziario lombardo, al fine di recuperare a tassazione – per mancanza del requisito dell’inerenza – costi imputabili a spese per attività di consulenza infragruppo.

Secondo i giudici di appello, le prestazioni di consulenza erogate dalla società capogruppo in favore di una sua controllata (rectius, la società accertata) erano regolate da apposito contratto e avevano consentito a quest’ultima di effettuare un’operazione di acquisizione societaria con notevole incremento del proprio volume di affari.
In altri termini – nonostante la mancata descrizione delle concrete attività fatturate non abbia consentito all’Amministrazione fiscale la verifica puntuale e analitica dei costi supportati dalla società rispetto all’attività di consulenza svolta – la capogruppo, sulla base di un regolare contratto, aveva svolto, a beneficio della società controllata, un’attività di consulenza in ambito finanziario, consentendo a quest’ultima il raggiungimento di importanti risultati economici, con la conseguenza che i costi della consulenza sostenuti dalla capogruppo sono da considerare deducibili, in quanto inerenti.

Nel ricorso di legittimità, l’Amministrazione eccepisce la violazione dell’articolo 109 del Tuir, laddove i giudici di appello hanno ravvisato l’inerenza dei costi in questione e, conseguentemente, la loro deducibilità, nonostante le relative fatture contenessero l’indicazione generica delle prestazioni e il relativo contratto fosse di poche righe, oltre a numerosi altri elementi, emersi in corso di verifica, che facevano propendere per la natura elusiva dell’operazione.

La decisione della Corte suprema
La Cassazione accoglie il ricorso, nella considerazione che il disposto di cui al comma 5 dell’articolo 109 del Tuir - secondo cui “le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi” - va interpretato, come da consolidato orientamento giurisprudenziale, nel senso che “…i costi per essere ammessi in deduzione quali componenti negativi del reddito di impresa, debbono soddisfare ‘i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità’ (10167/12; 13806/14; 1565/14)”.
In altri termini, ai fini della deducibilità di un costo, la Cassazione ricorda che “…non solo è necessario che ne sia certa l’esistenza, ma occorre altresì che ne sia comprovata l’inerenza, vale a dire che si tratti di spesa che si riferisce ad attività da cui derivano ricavi o proventi che concorrono a formare il reddito di impresa’ (6650/06)….trattandosi peraltro di una componente negativa del reddito si è inoltre precisato che , ‘la prova della sua esistenza ed inerenza incombe al contribuente’ (1709/07) e che ‘per provare tale ultimo requisito, non è sufficiente... che la spesa sia stata dell’imprenditore riconosciuta e contabilizzata, atteso che una spesa può essere correttamente inserita nella contabilità aziendale solo se esiste una documentazione di supporto, dalla quale possa ricavarsi, oltre che l’importo, la ragione della stessa’ (4570/2001)”.

Secondo la Cassazione, quindi, il ragionamento svolto dai giudici di appello si pone in evidente contrasto con i richiamati principi interpretativi in quanto, nel caso di specie, la prova dei costi deducibili non è stata opportunamente documentata, come pure la coerenza economica del costo sostenuto nell’attività d’impresa, da ritenersi sproporzionato (circa 410mila euro) rispetto al beneficio ricevuto.
Ne consegue che, la sentenza impugnata “…non soddisfa il descritto decalogo probatorio e quindi viola il richiamato principio di inerenza, ma anzi costituisce sotto questa angolazione un’oggettiva forzatura del quadro fattuale, atteso che l’inerenza è stata riconosciuta ad onta delle motivate contestazioni fatte valere dall’amministrazione in relazione alla genericità della descrizione della prestazione recata dalla fattura… alla laconicità del contratto regolante il rapporto…e all’ingente ammontare del costo portato in deduzione…”.

Osservazioni
Nella condivisibile sentenza in commento, la Cassazione ribadisce un principio fondamentale del sistema tributario: quello per cui il costo, per essere portato in deduzione, deve essere debitamente documentato e proporzionato al tipo di attività svolta.
Pertanto, oltre a dimostrane l’inerenza, l’imprenditore è obbligato – pena l’indeducibilità del costo – a provare la coerenza economica delle spese sostenute, ove, come nel caso di specie, venga contestata dall’Amministrazione finanziaria la congruità dei dati relativi a costi e ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni.

Lo stesso principio di diritto è stato ribadito, anche recentemente, dalla Cassazione nelle sentenze 17301/2014 (con riferimento alle consulenze), 8699/2014 (con riguardo alla scheda carburante) e 17645/2013 (in materia di spese di pubblicità e rappresentanza).


Fonte: Agenzia Entrate

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