Con la decisione in commento, la Corte di cassazione è intervenuta in merito all’individuazione dell’errore sul fatto previsto dal primo comma dell’articolo 6 del Dlgs n. 472/1997 quale esimente dalla comminazione delle sanzioni amministrative tributarie previste dai decreti legislativi n. 471 e n. 473 del 1997, operante sempreché tale errore non dipenda da colpa dell’agente.
A tal fine, la sentenza del Supremo collegio si rifà alla giurisprudenza di legittimità formatasi sulla disciplina prevista dal secondo comma dell’articolo 3 della legge n. 689/1981 (in tema di irrogazione delle pene amministrative), secondo il quale, “nel caso in cui la violazione è commessa per errore sul fatto, l'agente non è responsabile quando l'errore non è determinato da sua colpa”, attesa l'identità della ratio legis delle due normative.

Infatti, i giudici di legittimità principiano l’indagine rilevando come la citata normativa punitiva costituisca complemento della regola generale posta dall'articolo 5, comma 1, del Dlgs n. 472, secondo il quale, nelle violazioni punite con sanzioni amministrative, ciascuno risponde della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa, e, perciò, riproduce testualmente il precetto dettato in tema di “elemento soggettivo” dalla citata legge del 1981 sulla depenalizzazione.

La giurisprudenza della Suprema corte – e considerata oramai consolidata dalla pronuncia in commento – ritiene che l'errore sulla liceità della condotta dell’agente può rilevare, in termini di esclusione della responsabilità amministrativa, al pari di quanto avviene per la responsabilità penale in materia di contravvenzioni, soltanto quando esso risulti inevitabile.
A tal fine, il Supremo collegio reputa necessario “un elemento positivo, estraneo all'autore dell'infrazione, idoneo a ingenerare in lui la convinzione riferita liceità, senza che il medesimo autore sia stato negligente o imprudente ovvero che quest'ultimo abbia fatto tutto il possibile per osservare la legge e che nessun rimprovero gli possa essere mosso”, con l’effetto che l'errore deve essere incolpevole, ossia non suscettibile di essere impedito dall'interessato con l'ordinaria diligenza.
In questi termini si esprime la sentenza della sezione lavoro n. 16320/2010, citata da questa in rassegna unitamente a quelle della seconda sezione civile n. 19879/2009 e n. 228/2008, per le quali l'errore sulla liceità della condotta dell’agente è correntemente indicato come “buona fede”, la quale - a sua volta - non è per nulla presunta dall’ordinamento, ma dev’essere dimostrata dal trasgressore.

La buona fede dell’erede, quale soggetto obbligato alla presentazione della dichiarazione di successione, non è stata rinvenuta dalla decisione in rassegna quando il trasgressore non si sia attivato per conoscere l’esistenza del credito del defunto che, nel caso di specie si concretava, nella provvista di danaro esistente su di un conto corrente attivato con lo stesso istituto di credito presso il quale altri rapporti del de cuius erano ben conosciuti dagli eredi.

In tema, si ricorda che nella sentenza n. 11593/2007 si è statuito che, allorché il debitore alleghi che l'impossibilità della prestazione è causata da fatto del terzo (nella specie, mancato pagamento di somme dovute alla contribuente dal servizio sanitario nazionale), egli è tenuto a dimostrare la propria assenza di colpa, ossia di aver fatto uso dell'ordinaria diligenza per rimuovere l'ostacolo frapposto all'esatto adempimento dell'obbligazione, anche mediante l'eventuale reperimento di altre fonti finanziarie.


Fonte: Agenzia Entrate

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