E’ legittimo il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente, ex articolo 322 ter del codice penale, dei beni del legale rappresentante di una società per l’importo corrispondente all’intera somma indicata nella fattura falsa (500mila euro) poiché tale somma costituisce il profitto del reato.
Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 14066 del 13 aprile.

I fatti
Al legale rappresentante di una società a responsabilità limitata è stato contestato il reato di cui all’articolo 2 del Dlgs 74/2000, per aver indicato nella dichiarazione dei redditi 2008 una fattura per operazioni inesistenti dell’importo di 500mila euro.
 Il Tribunale del riesame di Grosseto ha confermato il decreto con il quale il Gip aveva disposto il sequestro preventivo dei beni dell’indagato fino alla concorrenza della somma di 500mila euro.
L’ordinanza del tribunale è stata impugnata dal legale in Cassazione per violazione di legge e vizio di motivazione, poiché, a suo parere, il vantaggio patrimoniale derivante dal reato finanziario non poteva ritenersi coincidente con l’importo del documento fittizio esposto nella dichiarazione, ma era costituito piuttosto dal risparmio fiscale che era stato tratto dalle conseguenze della diminuzione della base imponibile e quindi dalla minor entità dell’imposta dovuta.
La Corte, dopo aver rilevato che il ricorso aveva a oggetto esclusivamente l’entità del profitto del reato la cui realizzazione non veniva contestata, ha affermato che l’impostazione del legale rappresentante trascurava “… un duplice ordine di considerazioni, non tenendo conto, da un lato, di un’altra voce del profitto tratto dall’operazione…, e cioè quello derivante dall’evasione dell’IVA, pure oggetto di imputazione, dall’altro…che la detrazione della base imponibile del costo pari all’intero importo della fattura per operazione inesistente, integra di per sé, per il contribuente, un profitto, sia pure inteso in senso lato…” (Cassazione 14066/2012).

Osservazioni
La Corte si è pronunciata sulla misura del sequestro preventivo in presenza di una fattura emessa per operazioni inesistenti, affermando che il profitto del reato corrisponde all’intero importo indicato nella fattura fittizia e non alla “minore posta passiva” dell’imposta indicata in dichiarazione. L’irregolare annotazione dell’operazione e la sua successiva esposizione nella dichiarazione dei redditi, infatti, non hanno prodotto soltanto un risparmio fiscale, determinando una quantificazione minore (non precisata dal legale rappresentante), dell’imposta dovuta. A parere della Corte, nella fattispecie sottoposta al suo esame, al “profitto tecnico” del reato, derivante comunque dall’evasione Iva, si è affiancato “un profitto in senso lato” corrispondente alla detrazione dalla base imponibile del costo pari all’intero importo della fattura di comodo.

E’ noto che nel reato di dichiarazione fraudolenta mediante utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti (articolo 2, Dlgs 74/2000) oggetto della repressione penale è ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale (Cassazione 45056/2010) e che, per costante orientamento di legittimità, la contestazione di tale reato rende possibile la confisca per equivalente, con conseguente legittimità del sequestro preventivo ex articolo 321 codice procedura penale, delle somme di denaro o dei beni che costituiscono il profitto del reato fino a concorrenza dell’ammontare dell’imposta evasa (Cassazione 25890/2010 e 46590/2011).

Ma con la sentenza n. 14066 del 2012 la Cassazione propone una diversa quantificazione del profitto, comunque legittima poiché rispondente alla ratio dell’istituto del sequestro preventivo di evitare, mediante la creazione di un vincolo di indisponibilità su determinati beni, il pericolo che siano aggravate o si protraggano le conseguenze del reato o vengano commessi ulteriori illeciti.
Né la sentenza della Corte incontra eventuali limiti normativi concernenti la “misura” del profitto. Anzi. Non si rinvengono disposizioni di legge che definiscono la nozione di “profitto del reato” (Cassazione 26654/2008), né che fissano parametri per la sua determinazione.
Definizione che manca nelle disposizioni relative alla confisca quale misura sia di sicurezza prevista dall’articolo 240 codice penale (in caso di condanna il giudice può ordinare la confisca delle cose che sono servite o sono state destinate a commettere il reato e di quelle che ne sono il prodotto o il profitto ), sia sanzionatoria ex articolo 322-ter codice penale (la confisca può essere disposta anche per equivalente e ha la funzione di reintegrazione della situazione economica di fatto modificata dalla commissione del reato, imponendo un “sacrificio patrimoniale” di uguale valore a carico del responsabile dell’azione criminosa). E che manca anche nell’articolo 321 cpp, relativo al sequestro preventivo delle cose di cui è consentita la confisca.

Né ulteriori precisazioni si possono rinvenire nella “Finanziaria 2008” che, estendendo la confisca ai beni che costituiscono profitto o prezzo dei reati previsti e puniti ai sensi degli artt. 2, 3, 4, 5, 8, 10 bis, 10 ter, 10 quater e 11, Dlgs 74/2000, consente il sequestro preventivo dei beni confiscabili.

In tema di reati tributari, infatti, l’art. 1, 143 comma, legge 24 dicembre 2007, n. 244, si limita a compiere un integrale rinvio alle “disposizioni di cui all’art. 322 ter cp” (quindi 1 e 2 comma), consentendo il sequestro non soltanto per il prezzo, ma anche per il profitto del reato (Cassazione, n. 35807/2010).
Tale lacuna è stata colmata da numerosi interventi della giurisprudenza.
A tale riguardo, il profitto del reato deve essere identificato non solo, secondo un’interpretazione più restrittiva e più datata, “col vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato” (Cassazione 1811/1993 e 91449/1996), ma anche, secondo un’interpretazione più estensiva e più recente, con i beni e le utilità acquisiti con il frutto o il provento del reato che l’autore dell’illecito realizza come effetto anche mediato ed indiretto della sua attività criminosa (Cassazione 10280/2008).
E, oltre all’assenza di una generale definizione normativa di profitto, non si rinviene alcun “criterio quantitativo” per la sua determinazione.
In tale contesto, la Corte ha ritenuto garantito il rispetto del canone di proporzione con il vantaggio presumibilmente ricavato dall’illecito anche nelle ipotesi in cui il Gip ha individuato un criterio di valutazione prudenziale del profitto, ripartendo l’intero ammontare delle operazioni ritenute inesistenti (indicato nelle fatture ed equivalente all’intera entità del profitto accertato) in tante parti quanti erano i concorrenti nel reato (Cassazione 1183/2012).

E’ evidente, allora, che per i reati tributari il profitto può non identificarsi con l’imposta evasa, poiché i due concetti non sembrano essere perfettamente sovrapponibili. La nozione di profitto appare, infatti, più ampia, ricomprendendo anche i frutti ulteriori dell’attività illecita, consistenti oltre all’imposta evasa, anche nell’ulteriore arricchimento patrimoniale dell’indagato.


Fonte: Agenzia Entrate

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