La Corte di cassazione, con la sentenza 3259, del 2 marzo, ha sancito che l’omessa indicazione nelle fatture di dati prescritti dall’articolo 21, del Dpr 633/1972 integra gravi irregolarità legittimanti, ai sensi dell’articolo 39 del Dpr 600/1973, l’Amministrazione finanziaria a far ricorso all’accertamento induttivo del reddito imponibile. Risulta, pertanto, affermato il principio secondo cui la fattura priva dei requisiti di legge non è idonea a fornire la prova dell’esistenza delle operazioni riportate nella stessa.
Da ciò deriva che, in ipotesi di fatture ritenute relative a operazioni inesistenti, grava sull’Amministrazione l’onere di provare che le stesse operazioni non sono state mai realizzate. Nel caso, invece, di fatture prive dei requisiti normativi è onere del contribuente dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate, non potendo la stessa desumersi dall’esibizione di fatture carenti di elementi indispensabili ai fini della identificazione dell’operazione, così come accade nelle ipotesi in cui l’Amministrazione fornisca validi elementi per affermare che alcune fatture sono state emesse per operazioni anche solo parzialmente fittizie.

La questione trae origine dall’impugnazione di un avviso di rettifica Iva relativo all’anno d’imposta 1998. La Commissione tributaria regionale dell’Emilia Romagna, in riforma della sentenza di primo grado, aveva accolto la tesi difensiva della società, riconoscendo che:
le fatture utilizzate erano state emesse per coprire costi effettivamente sostenuti ma non documentabili
i corrispettivi indicati nelle fatture, pur non essendo specificate natura, qualità e quantità dei beni o dei servizi venduti o prestati, erano da ricondurre all’attività d’impresa
l’Iva applicata sui corrispettivi indicati nelle fatture era stata correttamente liquidata, non risultando prove che le fatture utilizzate non erano state pagate ed essendo un fatto pacifico (in quanto non contestato dall’ufficio) che le stesse ditte emittenti avevano regolarmente versato l’Iva addebitata in via di rivalsa, con conseguente mancanza di danno per l’Erario.

Avverso la sentenza della Ctr, l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per cassazione sostenendo, tra l’altro, che l’asserito pagamento dell’Iva addebitata in via di rivalsa e il fatto che le fatture riguardassero comunque l’attività d’impresa, erano circostanze recepite in maniera acritica da parte dei giudici tributari. Inoltre, l’eventuale pagamento dell’Iva da parte del cedente non incide sul rapporto tra fisco e cessionario quando il primo contesta al secondo l’inesistenza delle fatture emesse, posto che la ratio dell’obbligo di fatturazione è quella di rendere conoscibile, in modo certo, le operazioni commerciali, avendo il legislatore accolto, nell’articolo 21 del Dpr 633/1972, una formulazione così ampia da comprendere nel concetto di operazione inesistente ogni discrepanza tra il dato contabilizzato e il dato reale.

La decisione della Cassazione
Nell’accogliere il ricorso proposto dall’Amministrazione, i supremi giudici hanno osservato che “in ogni caso una fattura nella quale manchino i dati prescritti per legge non è idonea a fornire la prova dell’esistenza delle operazioni in esse riportate”.

Da tale assunto i giudici traggono elementi utili per ribadire, ancora una volta, il sistema di ripartizione dell’onere probatorio gravante sulle parti in giudizio. In particolare, si legge nella decisione in commento che “se in ipotesi di fatture ritenute relative ad operazioni inesistenti, grava sull’Amministrazione l’onere di provare che le operazioni, oggetto delle fatture, in realtà non sono state mai poste in essere, a fronte di fatture che invece non possono considerarsi tali perché mancanti dei requisiti normativi, grava sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate (non potendo essa ritenersi fornita con l’esibizione di fatture carenti di elementi indispensabili ai fini dell’identificazione dell’operazione posta in essere), così come accade nelle ipotesi in cui l’amministrazione fornisca validi elementi per affermare che alcune fatture sono state emesse per operazioni (anche solo parzialmente) fittizie.

La sentenza in esame compie un passo oltre l’impostazione più recente seguita dai giudici supremi in tema di ripartizione dell’onere probatorio in materia di “operazioni inesistenti”. In buona sostanza, dalle più recenti pronunce emergeva che l’onere probatorio viene ripartito tra Fisco e contribuente seguendo un preciso iter:
dapprima l’Amministrazione rinviene degli elementi che, nel loro complesso, possano costituire il presupposto probatorio per la contestazione dell’inesistenza delle operazioni
a fronte dei riscontri forniti dal fisco il contribuente deve, a sua volta e in termini di netta concretezza, dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni.

L’onere probatorio, dunque, gravante in un primo tempo in capo all’Amministrazione, viene trasferito, in un secondo momento, al contribuente. Il presupposto fondamentale, tuttavia, alla base di tale “trasferimento” è la validità, ossia l’idoneità, della ricostruzione probatoria del Fisco.

La sentenza rivela tutta la sua portata innovativa proprio in merito alla ripartizione temporale dell’onere probatorio: una volta appurato che le fatture emesse dal contribuente ed esaminate dall’Amministrazione risultino carenti dei requisiti normativi previsti dall’articolo 21 del Dpr 633/1972 (ossia mancata indicazione della natura, qualità e quantità dei beni o dei servizi venduti o prestati) opera, in via automatica, una “presunzione d’inesistenza” delle operazioni a cui le stesse fatture si riferiscono. Da ciò deriva che – in caso di fatture irregolari – il contribuente è chiamato a fornire una prova contraria “stringente e concreta”, così come accade nelle ipotesi in cui l’Amministrazione sia stata in grado di fornire una valida ricostruzione giuridico-fattuale circa l’inesistenza delle operazioni a cui le fatture in causa fanno riferimento. In altri termini, l’irregolarità della fattura genera automaticamente – prima ancora della chiamata a provare l’inesistenza delle operazioni gravante sull’Amministrazione – un’inversione di ruolo tra i due attori della controversia, trasferendo, da subito, sul contribuente l’onere di rintracciare elementi probatori concreti per sostenere la sua tesi.

Ulteriori spunti
Nella medesima sentenza viene, inoltre, precisato che:
in tema di accertamento con adesione attivato su istanza del contribuente, la convocazione “non costituisce per l’Ufficio un obbligo ma una facoltà, da esercitare in relazione ad una valutazione discrezionale del carattere di decisività degli elementi posti a base dell’accertamento e dell’opportunità di evitare la contestazione giudiziaria”
la mancata convocazione del contribuente a seguito della presentazione dell’istanza, ex articolo 6 del Dlgs 218/1997, “non comporta la nullità del procedimento di accertamento adottato dagli Uffici, non essendo tale sanzione prevista dalla legge” (cfr Cassazione, sezioni unite, sentenza 3676/2010).


Fonte: Agenzia Entrate

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