In caso di grave incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della disciplina, il giudice tributario non ha il potere di annullare d’ufficio le sanzioni comminate dall’ente impositore: ai fini della disapplicazione, è necessario che il contribuente provi che le disposizioni siano effettivamente equivoche e che la presunta ambiguità normativa derivi da elementi positivi di confusione.
A tale conclusione è giunta la Corte di cassazione con la sentenza n. 4031 del 14 marzo 2012.

Il fatto
La controversia concerne il ricorso presentato da una società contro l’avviso di accertamento, ai fini dell’Ici, emesso da un Comune avente a oggetto la maggior imposizione derivante dal diverso accatastamento di beni di proprietà della società ricorrente.
In particolare, la contribuente aveva accatastato gli “aero generatori” del proprio parco eolico come beni appartenenti alla categoria “E”: a parere dell’ente comunale, era più corretto che fossero inseriti nella categoria “D/1-Opificio”.

La Commissione tributaria di primo grado accoglieva il ricorso di parte, disponendo che le pale fossero accatastate come “E/3 – Costruzioni e Fabbricati per speciali esigenze pubbliche” con il contestuale annullamento delle sanzioni collegate.
Avverso la sentenza di prime cure il Comune proponeva ricorso, accolto in sede di appello: il giudice di secondo grado confermava la legittimità dell’avviso di accertamento impugnato sulla base della riconosciuta accatastabilità delle pale eoliche nella categoria “D/1 – Opificio”.

A seguito del ricorso della società soccombente, la vicenda approdava in Cassazione: in tale sede l’appello è stato definitivamente rigettato.

La decisione
Con un unico motivo, la ricorrente lamentava vizi motivazionali e di legge alla domanda di annullamento delle sanzioni per “obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma tributaria”.
A proprio dire, infatti, il giudice del merito aveva esaminato la controversia solo sotto il profilo dell’accatastabilità del parco eolico nella categoria “D/1”, trascurando così la domanda volta alla conferma della sentenza di prime cure almeno nella parte in cui i giudici avevano annullato le sanzioni irrogate con il contestato avviso di accertamento.

Il caso sottoposto al giudizio di legittimità si dirama su due temi interconnessi tra loro: da una parte l’esame del potere delle Commissioni tributarie di dichiarare l’inapplicabilità delle sanzioni tributarie in caso di obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle norme a cui la violazione si riferisce, dall’altra l’ammissibilità della censura relativa alla mancata pronuncia d’ufficio del giudice sulla questione precedente.

Sul primo punto, i giudici della Suprema corte ripercorrono il tessuto normativo posto alla base del potere delle Commissioni tributarie di rendere inapplicabili le sanzioni non penali previste dalle leggi tributarie.
Tale potere è conferito in primis dall’articolo 8 del Dlgs 546/1992, disposizione che collega l’inapplicabilità delle sanzioni alla giustificazione, adducibile dall’autore delle violazioni, circa le obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull'ambito di applicazione delle norme.
Il principio è ribadito, seppur con più generale portata, dal comma 2 dell’articolo 6 del Dlgs 472/1997, che disciplina le cause di non punibilità, e ripreso ulteriormente, anche se con riferimento alla fase dell’irrogazione sanzionatoria, dal comma 3 dell’articolo 10 dello Statuto del contribuente di cui al Dlgs 212/2000.
Il legislatore, pertanto, collega la non debenza delle sanzioni all’esistenza e alla prova di obiettive condizioni di incertezza, che deve ritenersi sussistente quando la norma, della cui portata e applicazione si tratti, “si articoli in una pluralità di prescrizioni il cui coordinamento appaia concettualmente difficoltoso per l’equivocità del loro contenuto, derivante da elementi positivi di confusione”.

Quanto alle invocate “obiettive condizioni d’incertezza”, la Corte di cassazione precisa che grava sul contribuente l’onere di addurre la ricorrenza e l’esistenza di tali elementi di confusione, di modo che “va escluso che il giudice tributario di merito debba decidere d’ufficio l’applicabilità dell’esimente, né, per conseguenza, che sia ammissibile una censura avente ad oggetto la mancata pronuncia d’ufficio sul punto” (Cassazione, sentenze 22890/2006 e 7502/2009).
Nel caso di specie, evidentemente, i giudici della Suprema corte non hanno rilevato nella normativa applicabile tale pluralità di prescrizioni, il cui coordinamento apparisse concettualmente difficoltoso perché di contenuto ambiguo scaturente “da elementi positivi di confusione”.

Nella pronuncia in commento i giudici di legittimità si sono espressi anche in tema di ammissibilità della censura relativa all’omessa pronuncia da parte del giudice di merito su alcuni dei motivi di appello.
Tale principio rientra in quello più ampio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato postulato dall’articolo 112 cpc, il quale recita testualmente che il “giudice deve pronunciare su tutta la domanda e non oltre i limiti di essa”.
I giudici, richiamando l’orientamento prevalente della medesima Corte, hanno sancito che l’omessa pronuncia da parte del collegio di secondo grado su domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio dalla controparte è ammissibile solo attraverso “la specifica deduzione del relativo error in procedendo, ovverosia della violazione dell’art. 112 c.p.c. (…) la quale soltanto consente alla parte di chiedere e al giudice di legittimità – in tal caso anche giudice del fatto processuale – di effettuare l’esame, altrimenti precluso, degli atti del giudizio di merito e, così, anche dell’atto di appello”.

In altri termini, l’omessa pronuncia su uno o più motivi di appello non costituisce una violazione di norma sostanziale e del vizio di motivazione, bensì violazione di natura procedurale: invero, le censure di natura sostanziale non presupporrebbero l’inerzia del giudice quanto invece una sua pronuncia, non giuridicamente corretta o viziata nella motivazione.


Fonte: Agenzia Entrate

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