Con la sentenza 8/24/12, del 15 febbraio, la Commissione tributaria regionale della Toscana ha dichiarato l’inammissibilità dell’appello di un contribuente, sancendo alcune considerazioni che vale la pena sottolineare.

Con più avvisi di accertamento, per quattro anni di imposta e per un totale di 618.448 euro, tra imposte e sanzioni, la direzione provinciale delle Entrate di Firenze aveva contestato a un contribuente l’occasionalità delle prestazioni e aveva accertato, di conseguenza, redditi di lavoro autonomo abituali, assoggettati a Iva e a Irap.
Il contribuente aveva, infatti, dichiarato che i compensi percepiti si riferivano a consulenze di vario tipo (amministrativo, contabile, di gestione, eccetera) prestate in via occasionale e, pertanto, non soggette a Iva.
In merito, l’ufficio contestava invece il fatto che la stessa tipologia di prestazioni presupponeva una professionalità che mal si conciliava con l’occasionalità delle stesse.
Anche gli importi pagati, del resto, facevano presumere un’abitualità, ripetitività e regolarità dell’impegno professionale, caratteristiche del lavoro autonomo abituale.
La sistematicità dell’attività svolta appariva, dunque, in chiaro contrasto con la definizione di occasionalità, che presuppone la carenza di abitualità nell’esercizio delle prestazioni.

Veniva inoltre evidenzato come sull’argomento si fosse già da tempo pronunciata la Corte suprema, con una decisione ancora oggi attuale (anche perché seguita e confermata sia dalla dottrina sia dalla giurisprudenza successive), in base alla quale “il termine “abitualità” sta a delimitare, nel contesto dell’art. 5 del DPR 633/72, un’attività caratterizzata da ripetitività, regolarità, stabilità e sistematicità di comportamenti; esso ha un significato contrario a quello di “occasionalità” che, riferito ad una attività, traduce i caratteri della contingenza, dell’eventualità e della secondarietà” (Cassazione 1052/1988).

Infine, l’ufficio evidenziava come l’attività in questione era anche esclusiva, visto che le prestazioni in esame rappresentavano l’unica fonte di reddito del soggetto.
Risultava dunque errata l’impostazione del contribuente, il quale, assumendo di aver effettuato, negli anni 2002, 2003, 2004 e 2005, delle mere “prestazioni occasionali”, aveva invece qualificato i (notevoli) compensi percepiti come redditi diversi, con applicazione della ritenuta d’acconto del 20% e senza applicazione dell’Iva.

La Commissione tributaria provinciale di Firenze, con la sentenza 167/01/08, del 31 dicembre 2008, aveva respinto in toto, i ricorsi del contribuente, il quale aveva poi presentato appello, omettendo però di censurare la sentenza impugnata e limitandosi a ripetere quanto già detto con i ricorsi introduttivi del giudizio.

L’ufficio aveva allora eccepito che l’appello era senza dubbio carente di alcuni elementi essenziali e, in particolare, delle specifiche censure alla sentenza di primo grado; eventualità espressamente sanzionata dall’articolo 53 del Dlgs 546/1992, come causa di inammissibilità dell’appello.
Il proposto ricorso in secondo grado, infatti, appariva privo dell’elemento essenziale di validità rappresentato dalla specificità dei motivi di impugnazione, anche considerato che l’appellante concludeva per una generica richiesta di riforma della sentenza, senza però argomentare in alcun modo le ragioni che avrebbero dovuto indurre a sostenere un giudizio di secondo grado e a riformare la stessa sentenza.

L’indicazione degli specifici motivi di impugnazione, tuttavia, costituisce un requisito essenziale dell’atto di appello, a pena di inammissibilità dello stesso, considerato che la funzione di essa è proprio quella di determinare esattamente il quantum appellatum e non essendo quindi consentito che l’appello contenga una generica richiesta di riforma della sentenza impugnata.

In tal senso, l’ufficio richiamava, del resto, anche quanto stabilito dalla Cassazione civile nella sentenza 13012/2001, laddove la Corte evidenzia che “è inammissibile il gravame alla commissione tributaria regionale se l’atto di appello contiene una generica doglianza circa la sentenza di primo grado o, peggio ancora, una pedissequa riproduzione delle precedenti difese, senza una specifica indicazione dei motivi” (la decisione della Corte si inserisce, peraltro, in una lunga serie di precedenti giurisprudenziali: cfr sentenze nn. 9628/1993, 3809/1994, 6066/1995, 1599/1997, 3805/1998, 464/1999, 3539/2000 e 5493/2001).

In conclusione, l’ufficio sottolineava come la motivazione della sentenza non era stata in realtà in alcun modo censurata dall’appellante, il quale non poteva certo dolersi del mancato accoglimento delle proprie difese di primo grado, cercando di riproporre un giudizio sulle stesse e non invece sulla sentenza oggetto di impugnazione.
Per tali motivi, l’Amministrazione finanziaria chiedeva, dunque, che venisse dichiarata l’inammissibilità dell’appello per violazione dell’articolo 53 del Dlgs 546/1992 e, solo in via cautelativa, ribadiva la correttezza dell’operato dell’ufficio e l’infondatezza delle tesi già avanzate dal contribuente in sede di ricorso.

Come detto, la Ctr Toscana ha accolto l’eccezione dell’ufficio e respinto l’appello del contribuente, condannandolo anche alle spese di giudizio.
Sottolineano, in particolare, i giudici di secondo grado che “non vi è dubbio che l’effetto devolutivo dell’impugnazione comporti il riesame da parte del Giudice di appello delle questioni già oggetto del ricorso introduttivo. Ma è altrettanto indubbio che, per effetto della norma processuale sopra richiamata, tale effetto devolutivo rimane circoscritto alle questioni delle quali si intende ottenere il riesame. Senza l’indicazione delle cause di doglianza nei confronti della pronuncia di primo grado non si genera l’effetto devolutivo tipico del giudizio di appello”.
Continuano, poi, evidenziando come “la riprova di quanto sopra affermato è data in modo esplicito dal testo dell’appello in questione, che ripete pedissequamente il testo del ricorso introduttivo ed omette qualsiasi considerazione contestativa nei confronti dell’impugnata pronuncia”.
In conclusione, “l’atto di appello considera la pronuncia di primo grado tamquam non esset, talchè nessuna delle ragioni giustificatrici addotte dalla Commissione provinciale ai fini del rigetto del ricorso trova ingresso – ovviamente sotto il profilo contestativo – nel presente grado di appello”.
La sentenza non poteva essere più chiara.


Fonte: Agenzia Entrate

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