E’ legittimo l’accertamento induttivo in materia di Iva avente a oggetto la contestazione di operazioni di natura immobiliare sulla base dell’incongruenza tra i ricavi contabilizzati e quelli ritraibili dalle effettive condizione di esercizio della specifica attività, in presenza di elementi presuntivi che, se considerati nel loro complesso, appaiono idonei a sostenere la pretesa tributaria.
Questo il principio sancito dalla Corte di cassazione con l’ordinanza n. 1972 del 10 febbraio.

Il fatto
La vicenda ha origine da un avviso di accertamento notificato dall’Agenzia delle Entrate a una società immobiliare: l’atto impositivo aveva a oggetto il recupero a tassazione di maggiori elementi positivi, oltre alla relativa imposta sul valore aggiunto, determinati come differenza tra i maggiori ricavi accertati in relazione alla cessione di tre unità immobiliari rispetto a quelli contabilizzati dalla società.

Il contribuente proponeva ricorso contro l’avviso di accertamento, rigettato sia in primo che in secondo grado.
In particolare, la Ctr Lombardia avallava la tesi dell’ufficio ritenendo l’avviso di accertamento legittimo sulla base di una serie di elementi di natura presuntiva rilevati in sede istruttoria.
In primo luogo, il collegio di merito riteneva significativo ai fini della rettifica lo scostamento tra i valori di cessione degli immobili recati nei diversi atti rispetto a quelli obiettivamente rilevati, per epoca e zona, dall’Osservatorio del mercato immobiliare.
I giudici rilevavano, altresì, un’altra serie di elementi gravi: il costo di costruzione dei tre immobili venduti, al netto del costo per la manodopera, era di poco inferiore al prezzo di vendita al lordo delle imposte; l’importo dei mutui contratti dagli acquirenti per l’acquisto dell’immobile era superiore al prezzo di acquisto dichiarato in atti e, infine, vi era incoerenza assoluta tra gli stessi prezzi dichiarati, non congrui rispetto alla tipologia e alla metratura degli appartamenti.

Contro la sentenza di secondo grado, il contribuente proponeva ricorso in Cassazione per violazione del disposto di cui all’articolo 39, comma 1, Dpr 600/1973, lamentando che l’ufficio avrebbe trasformato in piena prova il metodo induttivo di valutazione, “il tutto in contrasto col principio comunitario del “corrispettivo” e dando credito a semplici congetture, quali quelle desunte dalle analisi statistiche dell’Osservatorio del Mercato Immobiliare o da elementi esterni sfuggenti come i mutui stipulati dai compratori”; inoltre, la Ctr non avrebbe valutato correttamente né le insindacabili scelte imprenditoriali sulla convenienza dei prezzi né l’entità reale dei mutui dei compratori.
La Corte di cassazione, ritenendo il ricorso attinente, più che ad aspetti di diritto, a profili valutativi di fatto di esclusiva competenza del giudice di merito, dichiarava il ricorso proposto dal contribuente inammissibile.

La decisione
Con l’ordinanza in commento, i giudici di Cassazione hanno dichiarato inammissibile il ricorso del contribuente, reo di aver venduto degli immobili per un valore ben al di sotto del prezzo di mercato, considerando, altresì, la presenza di ulteriori elementi gravi e concordanti tali da legittimare l’utilizzo da parte dell’ufficio accertatore del metodo induttivo previsto all’articolo 39, comma 1, lettera d), del Dpr 600/1973 (ai fini delle imposte dirette) e all’articolo 54 del Dpr 633/1972 (ai fini dell’imposta sul valore aggiunto).
Nella motivazione, la Suprema corte ripercorre l’operato dei giudici di merito osservando che il contribuente, in entrambi i gradi di giudizio, non aveva contestato l’applicazione o l’interpretazione di norme di legge, bensì la valutazione degli elementi di fatto emersi nel corso dell’istruttoria circa l’affermata inattendibilità dei corrispettivi risultanti dagli atti di vendita, ossia “il forte scostamento rispetto alle risultanze dell’Osservatorio del Mercato Immobiliare, l’esiguità dell’utile contabile dell’intera operazione … rispetto ai rilevanti costi contabilizzati …, la ricostruzione comparativa degli importi mutuati dai compratori rispetto ai costi finali d’acquisto (comprensivi di oneri fiscali, notarili, di mediazione, etc)”.

Considerati gli elementi di fatto, certamente non contestabili dal contribuente, i giudici di legittimità hanno convalidato l’operato della Ctr sul presupposto che è valido l’operato dell’ufficio che procede alla rettifica della dichiarazione qualora “vi siano condotte non economicamente giustificate quali l’antieconomicità di comportamenti imprenditoriali che il contribuente non spieghi in alcun modo (cfr. Cass. n. 26635/08) e siano in conflitto con i criteri della ragionevolezza (Cass. n. 13915/09, Cass. n. 26635/08, n. 10649/01)”.
Pertanto, è legittima la rettifica dei ricavi contabilizzati e dichiarati dal contribuente qualora questi non dimostri in maniera ragionevole lo scostamento tra tali valori e quelli desumibili dalla banca dati dell’Osservatorio del mercato immobiliare (Omi), che costituisce una rilevante e attendibile fonte d’informazioni relative al mercato immobiliare nazionale, il tutto in presenza d’incongruenze intrinseche (prezzi/mq) ed estrinseche (mutui).

Il punto cruciale del ragionamento dei giudici di seconde cure, avvalorato in sede di legittimità, è la corretta valorizzazione di tutti gli elementi presuntivi emersi nel corso della verifica fiscale ai danni del contribuente, quindi non il solo e semplice scostamento tra il valore normale di vendita degli immobili e il minor prezzo applicato, i quali “tra loro associati, sono astrattamente idonei a sostenere la pretesa tributaria in sede contenziosa”.

A tal riguardo, il contribuente lamentava violazione del principio comunitario del “corrispettivo” in materia di tributi armonizzati, secondo cui la base imponibile ai fini Iva di un’operazione non può che essere data, salvo casi tassativamente previsti, dal corrispettivo versato o da versare al fornitore.
Il principio del “corrispettivo” evocato dal ricorrente e confermato anche dalla giurisprudenza della Corte di giustizia prevede che, seppur è legittimo correggere l’imponibile ai fini Iva laddove esistano prove o indicazioni che il pagamento reale effettuato differisce da quello dichiarato, non può essere addotto come prova per la rettifica della dichiarazione il solo fatto che l’ammontare dichiarato dell’immobile sia più basso del valore di mercato.
Il principio de qua ha trovato pieno riconoscimento in Italia: il legislatore nazionale, infatti, con l’articolo 24 della legge comunitaria 2008 ha abrogato la norma di cui all’articolo 54, comma 3, secondo periodo, del Dpr 633/1972, con la conseguenza che gli uffici non possono più svolgere rettifiche di tipo analitico soltanto sulla base del valore normale degli immobili, cioè sui valori Omi.

La Corte di cassazione, pronunciandosi in maniera netta e univoca sull’argomento, sancisce che l’operato dei giudici nazionali non vìola alcun principio “di diritto nazionale o comunitario, atteso che l’armonizzazione di tributi sulla cifra d’affari non pone barriere alla potestà accertativa domestica, anche in funzione antielusiva e con il solo basarsi anche su presunzioni semplici per la prova a carico del fisco.”


Fonte: Agenzia Entrate

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