L’articolo 52 del Dpr 633/1972 disciplina tutte le possibili attività degli uffici finanziari e della Guardia di finanza che si esplicano presso i locali del contribuente, al fine di procedere “ad ispezioni documentali, verificazioni e ricerche e ad ogni altra rilevazione ritenuta utile per l’accertamento dell’imposta e per la repressione dell’evasione e delle altre violazioni”.

Quando l’attività è svolta direttamente presso “i locali destinati all’esercizio delle attività commerciali, agricole, artistiche o professionali” non si ravvisano questioni particolari di natura procedimentale; in tali circostanze, infatti, è necessario che i dipendenti dell’Agenzia delle Entrate o i militari della Guardia di Finanzia siano muniti dell’apposita autorizzazione, rilasciata dal capo dell’ufficio da cui dipendono, che ne indichi lo scopo.

Diverso è il caso in cui l’accesso sia disposto in locali a uso “promiscuo”.
A tal riguardo, l’articolo 52, comma 1, penultimo periodo del Dpr 633/1972 (Ai fini delle imposte sui redditi la norma di riferimento è l’articolo 33, comma 1, Dpr 600/1973) dispone che, se l’accesso avviene in locali adibiti sia all’esercizio di attività economiche e professionali sia ad abitazione privata, l’attività è consentita soltanto previa autorizzazione del procuratore della Repubblica territorialmente competente (fermo restando l’obbligo dell’ordine di servizio rilasciato dal capo dell’ufficio di appartenenza).

La tematica è di notevole rilevanza, in quanto le disposizioni previste dal legislatore sono poste a tutela dell’inviolabilità del domicilio, inteso come luogo nel quale si estrinseca, in ambito privato, la vita e la personalità della persona.
Di contro, la violazione del diritto all’inviolabilità dello spazio di libertà dell’individuo, garantito in primis dall’articolo 14 della Costituzione, rileva ai fini della legittimità di tutte le operazioni di controllo, nonché delle acquisizioni e degli atti conseguenti.

Dal punto di vista procedimentale, l’autorizzazione in oggetto è un atto dovuto dell’Autorità giudiziaria, privo di natura discrezionale in quanto, pur essendo atto prodromico, assolve a una funzione meramente formale di controllo della sussistenza dei presupposti di legittimità richiesti dalla legge (l’autorizzazione prevista al comma 2 dell’articolo 52 ha, invece, natura discrezionale e assolve a una funzione sostanziale). La richiesta di autorizzazione presentata dall’organo controllore non deve, quindi, essere motivata, potendosi limitare alla constatazione della coincidenza del domicilio privato con il luogo di svolgimento dell’attività.

Per locali adibiti “anche” ad abitazione privata deve farsi riferimento ai quei luoghi ove sia contestualmente individuata la sede di esercizio dell’attività commerciale-professionale e l’abitazione privata del contribuente.

In merito alla nozione di “abitazione privata” la Guardia di finanza, con la circolare n. 1/2008 del 29 dicembre 2008, ha chiarito che deve trattarsi di “centro effettivo della vita domestica della persona”, potendosi parlare di destinazione a uso privato solo “in caso di effettiva destinazione di un certo luogo allo svolgimento di attività rientranti nella sfera privata ed intima della persona e della propria famiglia”.
È necessario, altresì, che la destinazione a uso privato sia “effettiva ed attuale”, non essendo sufficiente una mera dichiarazione del titolare che i locali sono utilizzati a tale scopo, onde evitare un’eventuale qualificazione dolosa dell’immobile tesa esclusivamente a invalidare le operazioni di controllo.

Pertanto, affinché un locale già destinato a uso industriale-commerciale possa essere considerato anche a uso privato (cd. “uso promiscuo”) non è sufficiente né la semplice dichiarazione del titolare dell’immobile né tantomeno la predisposizione, per il saltuario pernottamento o la consumazione di pasti, del locale o di parte di esso, bensì occorre che sia comprovato l’effettivo utilizzo a tale finalità.

Soffermiamo ora l’attenzione sulla nozione di “uso promiscuo”.
In primo luogo, la locuzione intende riferirsi all’utilizzo dei medesimi ambienti sia per la vita professionale - commerciale sia per la vita familiare.

Costante giurisprudenza della Corte di cassazione ha esteso il concetto di contestualità della destinazione d’uso degli ambenti presso cui l’accesso è effettuato.
Sulla base di tale orientamento, affinché possa parlarsi di uso promiscuo, non è necessario che i medesimi ambienti siano utilizzati contestualmente per l’attività d’impresa o professionale e per la vita familiare bensì è sufficiente che i locali, seppure fisicamente distinti, siano agevolmente comunicanti tra loro, “ogni qual volta l’agevole possibilità di comunicazione interna consenta il trasferimento dei documenti propri dell’attività commerciale nei locali abitativi” (sentenza n. 16570 del 28 luglio 2011).

In senso conforme la stessa Guardia di finanza che, con la citata circolare 1/2008, afferma che “l’uso promiscuo dei locali si verifica non solo nell’ipotesi in cui i medesimi ambienti siano contestualmente utilizzati per la vita familiare e per l’attività professionale, ma ogni qual volta la agevole possibilità di comunicazione interna consenta il trasferimento di documenti propri dell’attività commerciale o professionale nei locali abitativi e, quindi, sia possibile averli sottomano per ogni evenienza e, nel contempo però, detenerli in stanze abitualmente destinate al sonno o ai pasti”.

Se ne deduce pertanto che qualora fosse comprovata l’esistenza di punti comunicanti tra l’opificio (o i locali commerciali-professionali) e l’abitazione familiare, per l’espletamento dell’attività di controllo sarebbe necessaria l’autorizzazione della procura della Repubblica (quand’anche non si procedesse all’accesso fisico presso i locali destinati di fatto ad abitazione privata), dal momento che la facilità di comunicazione interna rende l’immobile complessivamente destinato anche all’uso abitativo.

La speciale cautela trae certamente origine dalla particolare natura dell’autorizzazione all’accesso che, essendo atto a tutela dell’inviolabilità del domicilio privato, rileva alla stregua di condicio sine qua non per la legittimità dell’attività di controllo e delle conseguenti acquisizioni.

Va da sé che, ai fini della richiesta di autorizzazione al procuratore, non è richiesta la presenza dei gravi indizi di violazione, ai sensi del comma 2 dell’articolo 52, Dpr 633/1972, perché i locali adibiti a uso privato in questo caso sono situati all’interno di un immobile a destinazione promiscua e, in quanto tali, non sono qualificabili come ambienti a destinazione esclusivamente abitativa.

In queste circostanze – attività effettuata presso luoghi adibiti esclusivamente ad abitazione privata, unitamente alle relative pertinenze - l’accesso è legittimo solo al verificarsi di tre condizioni:
rilascio dell’autorizzazione da parte del procuratore della Repubblica territorialmente competente
esistenza di gravi indizi di violazioni alle norme tributarie da sottoporre al vaglio dell’Autorità giudiziaria, consistente nella sussistenza di gravi indizi di violazioni alle norme tributarie, gravità che deve sussistere in merito agli indizi di violazioni e non già alla misura della presunta evasione
fondato sospetto che all’interno dei locali presso cui si intende accedere siano conservati libri, registri, documenti ed altre prove utili per la contestazione delle violazioni.
Le condizioni previste dal legislatore hanno natura sostanziale e conferiscono all’autorizzazione carattere discrezionale; infatti, è compito dell’adita Autorità giudiziaria valutare nel concreto l’esistenza e la gravità degli indizi di violazione delle leggi tributarie segnalati dall’organo richiedente.

Da qui l’esigenza di una adeguata motivazione della richiesta da parte dell’organo controllore, seppur limitata alla sussistenza degli indizi e non alla misura dell’evasione.

In ultimo, va rimarcato che le due diverse autorizzazioni all’accesso (quella richiesta in caso di accesso nei locali a uso privato e quella nei locali a uso diverso) non possono essere “interscambiabili” tra loro: infatti la circolare della Guardia di finanza conclude sull’argomento sostenendo che “una volta riscontrata la mancanza del presupposto dei gravi indizi e quindi l’illegittimità del primo tipo di autorizzazione, quest’ultima non può essere di per sé stessa utilizzata quale valido provvedimento autorizzativo per l’accesso”.


Fonte: Agenzia Entrate

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