E’ costituzionalmente legittima la normativa che dispone il raddoppio dei termini per l’accertamento tributario in presenza di violazioni che comportano l’obbligo di denuncia, ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale.



La Corte costituzionale si è così espressa con la sentenza n. 247, depositata il 25 luglio scorso che, con motivazione dettagliata e completa, ha sgomberato il campo da qualsiasi dubbio sulla legittimità del combinato disposto del terzo comma dell’articolo 57, del Dpr 26 ottobre 1972, n. 633, e del comma 26, articolo 37, del Dl 4 luglio 2006, n. 223, convertito dalla legge, n. 2482006, in vigore dal 4 luglio 2006[1].



La normativa

I commi 24 e 25 dell’articolo 37 del decreto legge 223/2006 hanno introdotto, rispettivamente dopo il secondo comma dell’articolo 43 del Dpr 600/73 e dopo il secondo comma dell’articolo 57 del Dpr 633/72, un nuovo termine di decadenza dell’azione di accertamento tributario in virtù del quale “In caso di violazione che comporta obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale per uno dei reati previsti dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, i termini di cui ai commi precedenti sono raddoppiati relativamente al periodo di imposta in cui è stata commessa la violazione”.



La novella normativa è, in virtù del successivo comma 26 dell’articolo 37, applicabile “a decorrere dal periodo d'imposta per il quale alla data di entrata in vigore del presente decreto (nda, 4 luglio 2006) sono ancora pendenti i termini di cui al primo e secondo comma dell'articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 e dell'articolo 57 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633”.



I dubbi di legittimità costituzionale

I giudici della Commissione tributaria provinciale di Napoli hanno sollevato diverse questioni di legittimità costituzionale nei confronti della normativa richiamata, ritenendo sussistere un possibile contrasto con la normativa di cui agli articoli 3, 24, 25 e 97 della Costituzione, nonché all’articolo 3, comma 3, della legge 27 luglio 2000, n. 212.



In maggior dettaglio, i giudici partenopei hanno ritenuto che la normativa in questione avrebbe violato:
1.gli articoli 3 e 24 della Costituzione, nonché l’articolo 3, ultimo comma, della legge 212/2000, perché avrebbe irragionevolmente prorogato o riaperto termini di decadenza ormai scaduti, così ledendo l’esigenza di certezza dei rapporti giuridici e il diritto di difesa dei contribuenti
2.l’articolo 24 della Costituzione, perché la denuncia penale, successiva al decorso dei termini per l’accertamento quadriennale (o quinquennale nell’ipotesi di omessa dichiarazione), potrebbe intervenire quando il contribuente non è più in possesso delle scritture e dei documenti contabili, alla cui conservazione non sarebbe più obbligato (articolo 22 del Dpr 600/73); inoltre, assoggetterebbe il contribuente, in modo indeterminato, all’azione esecutiva del Fisco
3.gli articoli 3 e 97 della Costituzione perché, essendo il raddoppio non condizionato dall’avvio o dagli esiti dell’azione penale, attribuirebbe agli uffici un potere discrezionale irragionevole e in contrasto con i principi di imparzialità e buon andamento, potendo questi estendere i termini dell’accertamento in modo soggettivo e non controllabile
4. l’articolo 3 della Costituzione, perché consentendo discipline differenziate per le notifiche dell’accertamento, introdurrebbe irragionevoli disparità di trattamento
5.l’articolo 25 della Costituzione perché rende retroattivamente applicabile la sanzione del raddoppio dei termini per l’accertamento di imposta.
La decisione della Consulta

La sentenza della Corte costituzionale, attesa con vivo interesse dagli operatori del mondo tributario, ha esaminato, in modo analitico e completo, le questioni sollevate dai giudici tributari, dichiarandole in parte inammissibili e in parte infondate.

Le motivazioni fornite dalla Consulta meritano un attento esame anche in ragione degli spunti di riflessione che la medesima può fornire anche su tematiche estranee alle questioni esaminate.



Entrando nel dettaglio della sentenza, e in merito alla prima questione sollevata, i giudici delle leggi hanno ritenuto la questione inammissibile per quanto concerne il presunto contrasto del raddoppio dei termini con l’articolo 3, comma 3, della legge 212/2000 (Statuto del contribuente). Secondo i giudici, tale articolo “non può essere qui evocato quale parametro di legittimità costituzionale. Come più volte osservato da questa Corte, infatti, le disposizioni di detta legge non hanno rango costituzionale e non costituiscono, neppure come norme interposte, parametro idoneo a fondare il giudizio di legittimità costituzionale di leggi statali” [2].

Con riferimento alla violazione degli articoli. 3 e 24 della Costituzione, la Consulta evidenzia come la normativa non “riapra” o “proroghi” termini già superati, ma ne introduca differenti applicabili a fattispecie ab origine diverse. Non c’è una “reviviscenza”, ma si tratta di un termine diverso.

In sostanza, con la loro introduzione, il legislatore ha così previsto due diversi termini di decadenza per l’azione di accertamento, l’uno (termine “doppio”) applicabile nei confronti delle fattispecie per le quali sussiste l’obbligo di denunzia penale, l’altro (termine “breve”) applicabile alle fattispecie per le quali non sussiste tale obbligo.



In merito alla seconda supposta violazione sollevata dai giudici di merito, la Corte costituzionale non ravvisa alcuna lesione del diritto di difesa in quanto l’obbligo di conservazione (ex articolo 22 del Dpr 600/73) perdura fino alla definizione degli accertamenti relativi al corrispondente periodo di imposta; il contribuente, pertanto, è tenuto a conservare i documenti e le scritture contabili fino allo spirare dei termini raddoppiati e tale termine non può ritenersi né indeterminato “in quanto esso, in presenza del suddetto obbligo di denuncia penale, è individuato dalla normativa in modo certo”[3], né irragionevolmente ampio in quanto “è di poco superiore al termine di prescrizione dei reati suddetti (sei anni) e la sua entità è adeguata a soddisfare la ratio legis di dotare l’amministrazione finanziaria di un maggior lasso di tempo per acquisire e valutare dati utili a contrastare illeciti tributari (…) particolarmente gravi e, di norma, di complesso accertamento”[4].



La terza questione, secondo cui sussisterebbe un irragionevole e non controllabile potere dell’Amministrazione finanziaria di estendere i termini dell’accertamento, è stata ritenuta infondata in quanto, evidenzia la Consulta, il raddoppio è legato all’insorgenza dell’obbligo di denuncia penale, il quale sussiste quando il pubblico ufficiale sia in grado di individuare con sicurezza gli elementi del reato da denunciare, non essendo sufficiente il generico sospetto di una eventuale attività illecita. Su specifica eccezione dei contribuenti, spetterà dunque al giudice tributario stabilire la ricorrenza dei “presupposti dell’obbligo di denuncia” (non dell’accertamento del reato), la cui prova dovrà essere fornita dall’Amministrazione finanziaria[5].



Analogamente priva di fondamento – secondo i giudici delle leggi – è la presunta disparità di trattamento in violazione dell’articolo 3 della Carta costituzionale: “la ricorrenza di elementi tali da obbligare alla denuncia penale ai sensi dell’art. 331 cod. proc. pen. costituisce una situazione eterogenea rispetto a quella in cui tali elementi non ricorrono. E’ innegabile, infatti, che la non arbitraria ipotizzabilità di specifici reati tributari, espressivi di un particolare disvalore, giustifica la previsione di una disciplina differenziata, proprio in ragione della gravità dei fatti e della maggiore difficoltà che, di norma, richiede il loro accertamento”.



In merito alla quinta e ultima eccezione sollevata dai giudici partenopei, la Consulta ha ritenuto, infine, la questione infondata in quanto il raddoppio dei termini non può qualificarsi come “sanzione penale”, neppure impropria o atipica, in quanto “il mero assoggettamento ad un termine più lungo di accertamento fiscale non svolge, dunque, alcuna funzione afflitivo-punitiva o sanzionatoria di un fatto di reato, ma, operando su un piano meramente procedimentale, persegue solo il sopra evidenziato obiettivo di attribuire agli uffici tributari maggior tempo per accertare l’effettiva capacità contributiva del soggetto passivo di imposta”.



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[1] Si noti che la sentenza in commento, seppur pronunciatasi specificamente sull’articolo 57 del Dpr 633/72, non può non ritenersi estesa all’identico raddoppio dei termini contemplato per le imposte sui redditi dall’articolo 43, comma 2-bis, del Dpr 600/73.


[2] La Corte richiama in proposito la precedente sentenza 58/2009 e le ordinanze 13/2010, 185/2009, 180/2007, 428/2006, 216/2004 già pronunciatesi sull’argomento.


[3] Otto o, in caso di omessa dichiarazione, dieci anni dal 31 dicembre dell’anno successivo a quello di imposta. La Consulta ha anche precisato, nel corpo motivazionale, che ai fini del raddoppio non possono essere tenuti in considerazione i prolungamenti di termini previsti da altre disposizioni di legge, in quanto dalla lettera del terzo comma dell’articolo 57 del Dpr 633/72 (analogamente a quello dell’articolo 43 Dpr 600/1973) si evince che il raddoppio è riferito esclusivamente ai “termini di cui ai commi precedenti” e, cioè, il quarto anno o il quinto anno, nel caso di omessa dichiarazione, a quello di presentazione della dichiarazione dei redditi.


[4] La Corte costituzionale individua, dunque, una ratio legis diversa da quella, comunque riconosciuta, individuata dal legislatore nella relazione d’accompagnamento al disegno di legge di conversione del Dl 223/2006, secondo la quale il raddoppio consentirebbe una circolazione delle prove dal giudizio penale a quello tributario. I giudici della Consulta, infatti, ritengono tale ultima finalità solo eventuale, ravvisato che il raddoppio penale consegue dal mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale, indipendentemente dalla concreta presentazione della medesima o dall’inizio dell’azione penale.


[5] Si ritiene che la prova della ricorrenza di siffatti presupposti deve essere fornita dall’Amministrazione finanziaria soltanto dietro specifica eccezione processuale della parte, non potendosi – al contrario – rinvenire tale obbligo in sede di motivazione dell’atto impositivo.


Fonte: Agenzia Entrate

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